La palma della maggiore sorpresa di Jazz em Agosto se la aggiudica senz’altro Ahmed, quartetto londinese destinato a celebrare Ahmed Abdul-Malik, singolare figura di polistrumentista newyorkese, fra anni cinquanta e sessanta pioniere nella fusione di jazz e musica araba e nordafricana. Il pianista Pat Thomas è una figura ben nota a chi conosce la scena improvvisativa britannica, meno lo sono gli altri componenti di Ahmed: Seymour Wright (sax alto), Joel Grip (contrabb.), Antonin Gerbal (batt.). Il loro omaggio ad Abdul-Malik non è per niente formale: dall’inizio Wright suona in maniera gracchiante e starnazzante e molto ritmica, evitando rigorosamente qualsiasi cosa assomigli ad una frase; intanto Thomas assesta accordi perentori sul piano, e Gerbal tiene all’inizio un ritmino da bossa nova, da cui passa via via ad altre figurazioni, che – rapido, quasi accanito – tiene caparbiamente per un tratto, prima di transitare ad un’altra soluzione ritmica ancora, sempre come se non ci fosse un domani.

SI POTREBBE PENSARE ad un brano iniziale, ma vanno avanti come treni, con un loro sgraziato, surreale swing: dal piano emerge di tanto in tanto un motivetto di impronta cubana, il sax alto insiste imperterrito, come indemoniato, il parossismo cresce, la loro determinazione e la loro ossessività hanno molto di gioioso e per l’ascoltatore diventano una delizia, un’ipnosi a cui ci si abbandona con voluttà. Dopo tre quarti d’ora senza soluzione di continuità l’instancabile batteria va su un ritmo di samba, e chiudono: una vera sferzata di freschezza e di energia.
Formatasi attraverso un vasto spettro di esperienze e influenze, dalla tromba classica al punk, Jaimie Branch è tra i talenti espressi dalle nuove generazioni che più hanno attirato l’attenzione; lavora fra l’altro da parecchio col batterista Jason Nazary, in un duo con abbondante impiego di elettronica. Anche il loro set è stato un flusso senza soluzione di continuità: atmosfere dense e grezze, pulsazioni e rumorismo elettronici, ritmi ossessivi e sghembi della batteria, approccio piuttosto giocoso e interventi tutto sommato parsimoniosi della tromba. Se anzi col suo strumento Branch fosse stata un pizzico più presente l’insieme avrebbe potuto guadagnarne in intensità e profondità. In autunno saranno in Italia.

Formatasi attraverso un vasto spettro di esperienze e influenze, dalla tromba classica al punk, Jaimie Branch è tra i talenti espressi dalle nuove generazioni che più hanno attirato l’attenzione; lavora fra l’altro da parecchio col batterista Jason Nazary

Collettivo all’insegna dell’autocoscienza afroamericana e dell’attivismo, il chicagoano Black Monument Ensemble di Damon Locks mette al centro le voci: in questa occasione tre vocaliste, più i campionamenti e l’elettronica del leader, batteria, percussioni e il clarinetto di Angel Bat David. Proposta di punta della International Anthem, etichetta oggi di riferimento: però gli arrangiamenti vocali ci sono parsi monocordi, alcuni aspetti (come il clarinetto) piuttosto slegati, e l’insieme carente di una fantasia più contemporanea.

LA CANADESE e newyorkese di adozione Kris Davis – fra i pianisti oggi più apprezzati – il contrabbassista Stephan Crump e il batterista Eric McPherson si sono presentati col loro Borderlands Trio: rapporto paritario fra gli strumenti, musica sofisticata e calibrata ma mai calligrafica, in una esplorazione aperta delle più diverse possibilità dell’interplay. Festival con le invidiabili risorse della fondazione Gulbenkian, Jazz em Agosto ha potuto dare al trombettista Nate Wooley l’opportunità di presentare, con una nutrita formazione e col coro appunto del Gulbenkian, il sesto capitolo del suo ambizioso Seven Storey Mountain, ispirato dall’opera del monaco e scrittore pacifista Thomas Merton: lavoro con un progressivo crescendo costruito con meccanismi tipicamente minimalisti, fino ad un tornado di suoni e poi ad uno scioglimento con intervento, forse un po’ kitsch nel contrasto con il bailamme precedente, del coro.

Chiusura in bellezza con il New Masada Quartet di John Zorn (Julian Lage, chit. el., Trevor Dunn, contrabb., Kenny Wollesen, batt.): un piacere soprattutto i brani in cui è sempre forte e vitale la sollecitazione dei classici quartetti di Ornette Coleman, che per Masada sono stati una fondamentale ispirazione iniziale: un Ornette che in Zorn, sempre impagabile al sax alto, torna in una felice trasfigurazione speedata e schizzata.