Supramonte culla del mito del bandito buono, addio. Graziano Mesina, icona del banditismo sardo, ovvero di una forma di extralegalità in qualche modo espressione dei valori della tradizionale società agropastorale barbaricina, ieri è stato arrestato come capo di un’organizzazione criminale che gestiva, secondo l’accusa, un imponente traffico di droga in collegamento con le cosche calabresi lombarde. Dentro, quindi, l’orizzonte della criminalità organizzata globalizzata; e fuori da ogni specificità sarda, fuori dal sistema di coordinate antropologiche che, a suo tempo, produsse Grazianeddu, il «balente», l’eroe popolare.

L’inchiesta su Gazianeddu
Ma converrà, per capire, cominciare dai fatti nudi e crudi dell’inchiesta che ha portato Mesina nuovamente dietro le sbarre.
L’ex «primula rossa» del Supramonte è stato arrestato all’alba di ieri dai carabinieri con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. In campo uno spiegamento di forze dell’ordine impressionante: trecento uomini, un’operazione dei carabinieri coordinata da militari del reparto operativo del comando provinciale di Nuoro, alla quale hanno partecipato anche militari dell’arma di Milano, di Cagliari, di Oristano, di Sassari e di Reggio Calabria, più i Cacciatori di Sardegna e gli avieri del decimo nucleo elicotteri di Olbia. Il tutto in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Nuoro nei riguardi di 21 persone, con arresti e perquisizioni in diverse regioni d’Italia.
I magistrati nuoresi ritengono di aver sgominato due organizzazioni – di una di queste era leader Graziano Mesina – che trafficavano in stupefacenti. Sono sette gli arrestati riconducibili all’organizzazione capeggiata da Mesina, che l’aveva costituita – secondo l’accusa – con base a Orgosolo, contando su una fitta rete di amicizie e di parentele. L’altra organizzazione criminale era invece attiva a Cagliari e, secondo gli investigatori, era gestita da Gigino Milia, amico di lunga data di Mesina: entrambi erano stati condannati per sequestro di persona e ricettazione il 23 giugno 1978 dal tribunale di Camerino.

Fino al 2010 Mesina e Milia, sfruttando conoscenze e il credito maturato nel tempo fra esponenti della criminalità sarda e della penisola, sono riusciti ad acquistare – sostengono i carabinieri – grosse partite di droga (eroina, cocaina, marijuana) e a rivenderle ad altre organizzazioni e a spacciatori attivi nelle province di Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano.

Negli ultimi anni, invece, Mesina si sarebbe organizzato autonomamente, con propri canali di approvvigionamento. Oltre a Mesina, in carcere sono finiti gli orgolesi Raimondo Crissantu, Salvatore e Franco Devias, Giovanni Filindeu, Giovanni Antonio Musina e Francesco Sini, che già era agli arresti domiciliari per un altro reato. Ai sette dell’organizzazione nuorese si aggiunge Francesco Piras, di Oristano.

Droga da Milano alla Sardegna
Le indagini dirette dalla Dda di Cagliari avrebbero consentito di accertare che Mesina, fra luglio 2008 e luglio 2009, insieme con Milia avvrebbe gestito un notevole traffico di droga da Milano verso la Sardegna: nel capoluogo lombardo i due avevano trattato con esponenti di organizzazioni criminali locali, calabresi e albanesi, da cui avrebbero acquistato – secondo gli inquirenti – diverse partite di eroina destinate al mercato sardo. Il custode della droga, che arrivava tramite corrieri controllati dalle due organizzazioni, era Antonio Mascia, di Villanovafranca, un piccolo centro del cagliaritano, finito anche lui in carcere. Il pagamento della droga ai fornitori era affidato – secondo i carabinieri – all’avvocato cagliaritano Corrado Altea, anche lui arrestato. Secondo l’accusa, come legale Altea ha potuto avere colloqui in carcere con Mascia in un periodo in cui era detenuto e sapere da lui dove aveva nascosto la droga custodita per conto dell’organizzazione. Ma c’è di più: la banda che faceva capo a Mesina stava progettando un sequestro di persona: i carabinieri del comando provinciale di Nuoro sostengono di avere scoperto che Mesina aveva già fatto un sopralluogo e fornito dettagli precisi sull’ostaggio ai suoi complici. Tutto sarebbe provato da intercettazioni ambientali e telefoniche.

Il primo arresto a 14 anni
La lunga storia dei conti di Graziano Mesina con la giustizia, chiusa nel 2004 dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che gli concesse la grazia e riaperta ieri, comincia nel 1956. Nato il 4 aprile del 1942 ad Orgosolo, penultimo di dieci figli del pastore Pasquale Mesina e di Caterina Pinna, Graziano fu arrestato la prima volta a 14 anni per porto abusivo d’armi. Poco dopo fuggì, compiendo la prima delle evasioni che lo resero celebre.
La seconda fuga risale al maggio del 1962, quando, durante un trasferimento dal penitenziario di Sassari, si lanciò da un treno in corsa.
La libertà durò poco: venne catturato dopo un lungo inseguimento. Nello stesso anno mise a segno la terza evasione, questa volta dall’ospedale di Nuoro, dove era ricoverato. Per sfuggire alla cattura rimase nascosto due giorni e due notti nel cortile, dentro un grosso tubo. La quarta evasione di Grazianeddu fu quella dal carcere di San Sebastiano di Sassari. Mesina, insieme con l’ex legionario spagnolo Miguel Atienza, si lasciò cadere dal muro di cinta dell’istituto di pena. Da allora rimase alla macchia fino al 20 marzo del 1968, quando venne catturato a un posto di blocco da una pattuglia della polizia stradale nei pressi di Orgosolo.

Una guida turistica
Trasferito nella penisola fece parlare ancora di sè per altre evasioni spericolate. Si è anche favoleggiato di un suo incontro segreto, durante uno dei periodi di latitanza, sul Supramonte con Giangiacomo Feltrinelli, interessato _ pare – a fare di Grazianeddu il capo di una guerriglia sarda sul modello dei movimenti di liberazione del Terzo mondo; fatto che però non ha mai avuto conferma. Uscito nel 2004 dal carcere di Voghera dopo la concessione della grazia, Mesina tornò ad Orgosolo. Viveva facendo la guida turistica nella Barbagia e nell’Ogliastra, cioè negli stessi luoghi che furono nascondigli inespugnabili durante le sue latitanze e dopo le sue rocambolesche fughe.

Ora i conti con la giustizia si riaprono. E il quadro è pesantissimo. L’ultimo balente, giunto all’età di 71 anni, si rivelerebbe come il più normale dei boss, una figura tutta interna alla logica della criminalità organizzata, la stessa che gestisce il traffico milionario della droga secondo regole e schemi validi in ogni angolo del pianeta.

La fine di un’era
L’aura un po’ romantica e trasgressiva del fuorilegge, legato in qualche modo al paradigma del banditismo sociale, svanisce di fronte alla collusione con le cosche mafiose calabresi e albanesi e all’adesione ad una razionalità criminale che con l’orizzonte di valori in cui si poteva ancora parlare di «balentìa» – fedeltà al codice d’onore della comunità di pastori anche a costo d’infrangere la legge – non ha più nulla a che vedere. Quel codice d’onore era un sistema di regole che aveva esso stesso valore di legge; era la legge non scritta delle comunità agropastorali prima che fossero travolte da un processo di modernizzazione in cui a vincere è stata un’altra legge: quella dell’ordine, prima sabaudo e poi «nazionale», che ha portato l’isola dentro un sistema economico e sociale altro, sostenuto dall’edificio normativo delle democrazie liberali.

L’arresto di Mesina ha un fortissimo valore simbolico, perché sancisce, con l’evidenza brutale dei fatti, che la partita è finita, che il codice barbaricino non esiste più, che ha perso, che è stato del tutto cancellato, se è vero che persino la sua icona più carica di senso, Grazianeddu, si rivela totalmente omologata ad un orizzonte di valori incardinato sul perseguimento dell’utile economico attraverso mezzi che con gli equilibri antichi della comunità dei pastori confliggono in maniera clamorosa.