Stanotte ho fatto un sogno. Nel mezzo di un’affollata situazione urbana cominciavo a correre a grandi passi, sempre più veloce, falcate da dieci metri l’una, distanze da campione centrometrista, ed ero leggerissima, senza corpo, una gazzella vestita di nero, silhouette di me stessa a cartone animato. Era bellissimo. La sensazione al risveglio è stata di ampiezza del cuore, di respiro largo da montagna, di felicità pura.

Cannes può essere vissuto come luogo straniante (io lo vivo così): tantissime persone tutte disinteressate agli altri e a te, perse in personali missioni lavorative di assoluta importanza, ego-concentrati, le gambe di donne e uomini compassi che misurano il lungomare avanti e indietro senza badare a nulla e nessuno. L’anonimato che si vive è diffuso e annichilente, non potente e carico come sentirsi invisibile mosca potenziale tigre tra i grattacieli di New York, altro sito spaesante per eccellenza. Come i bianchi desertici canyon dove è ambientato Songs my brothers taught me (di Chloé Zhao, alla Quinzaine de Realizateurs) e dove sorge la riserva indiana di Pine Ridge in cui vive Johnny, giovane spacciatore di alcolici illegali, con la sorella undicenne Jashaun e con una madre assente, persa in un oblio indistinto: da questo personale inferno il ragazzo vorrebbe fuggire con la fidanzata a Los Angeles. Una natura maestosa e alienata, aggravata dal’oppressione del vivere in una setta-religione che produce malessere diffuso tra le famiglie: dipendenze, promiscuità e poligamia, droghe e alcolismo tramandate di padre in figlio, dilaganti suicidi, incendi dolosi, violenza, solitudine. Unica pura, la sorellina dai tratti indigeni, di una dolcezza contagiosa, che piange nostalgie pregresse, si tappa le orecchie davanti alle lacrime della madre alla notizia della morte del padre, un padre inesistente da vivo, che ha avuto venticinque figli da nove donne diverse. La storia non è allegra ma luminosa, gli spazi aperti si caricano di frustrazione umana, come impalpabili labirinti immaginari che imprigionano e privano della possibilità di trovare la via d’uscita.

Finalmente un esordio femminile, una gioia per me che amo il cinema delle donne. Che non vuol dire storie di sentimenti, di protagoniste in crisi, dipendenti da attese, stordite dal fulmine caduto dal cielo. Ma storie potenti, dure, di pancia, al pari di quelle dirette da registi uomini. Donne capaci di percorrere distanze planetarie nella breve durata di un paio d’ore. Superman, Superwoman: superpoteri per tutti!

Fabianasargentini@alice.it