La questione – può un libro di successo essere un buon libro? – è vecchia e, se vogliamo, non molto divertente. Eppure tutte le volte che viene sollevata si scatenano discussioni a non finire, destinate naturalmente a non concludersi mai.
Protagonista della più recente incarnazione di questa secolare querelle è uno scrittore spagnolo molto amato anche da noi, Javier Cercas. Autore esattamente vent’anni fa dell’ottimo Soldati di Salamina, cui sono seguiti diversi titoli più o meno buoni (ma mai, purtroppo, all’altezza di quello che gli ha dato la notorietà), Cercas ai primi di febbraio ha approfittato della sua rubrica settimanale su El País per attaccare frontalmente il critico argentino Damián Tabarovsky, colpevole di avere dato voce a «una delle superstizioni letterarie più radicate del nostro tempo, secondo la quale ’il successo mainstream nell’industria letteraria è imperdonabile’, poiché ’implica sempre una qualche forma di sconfitta artistica’».
Furibondo, Cercas apostrofa Tabarovsky: «Secondo lei, il Don Chisciotte, che fu uno dei grandi best-seller del suo tempo, ’implica una qualche forma di sconfitta artistica’, così come i drammi di Shakespeare, che erano pure molto popolari nell’Inghilterra elisabettiana?». E ancora: «Com’è possibile che una falsità così evidente come quella formulata da Tabarovsky non susciti la minima reazione e venga diffusa come un articolo di fede? Perché nessuno legge più i critici, tranne altri critici e, se mai, gli autori che criticano? Perché nessuno osa criticare il critico, per paura di rappresaglie, e di conseguenza la critica è diventata impunita, gratuita, irresponsabile?».

L’aspetto curioso dell’invettiva di Cercas è che le frasi incriminate di Tabarovsky appartengono al saggio Literatura de Izquierda e risalgono al 2004. Le ha citate in una recensione uscita su El Cultural, supplemento letterario di El Mundo, nel novembre 2019 (in un mondo, per inciso, che ci appare oggi ben più lontano di quanto in effetti sia) il critico Nadal Suau, e il titolo in oggetto è il romanzo di Manuel Vilas Alegría (in italiano, «La gioia, all’improvviso», ndr).
Insomma, una polemica a scoppio ritardato. La stranezza non è sfuggita ad Alfonso Sánchez, redattore del blog Patio sin red, che – da vero detective letterario – ha cercato di andare a fondo e ha notato come bersaglio di Tabarovsky e di Suau siano in realtà i meccanismi di una industria editoriale che preme sugli autori perché ripetano formule stanche pur di replicare i loro successi. Principale imputato, in questo caso, il premio Planeta, di cui nel 2019 Alegría è stato finalista e che è stato vinto – coincidenza! – proprio da Javier Cercas.
Nella discussione non poteva mancare la risposta di Suau che sulla rivista Contexto ha precisato la sua posizione sul caso specifico e sulla questione generale, rivendicando la possibilità, se non il dovere, «quando il pubblico e i media e l’accademia mettono un autore al centro della scena» di chiedersi il perché: «Almeno – scrive Suau – questo è ciò che farà chi difende un’idea di letteratura legata alla rottura costante e alla possibilità di essere scomodi in ogni momento, nella forma e nella sostanza. Nessuno è costretto a pensare alla creazione letteraria in questi termini, ma d’altra parte nessuno ha il diritto di ridicolizzare una lettura da questa prospettiva».
E se certamente – e per fortuna – la storia della letteratura passata e recente abbonda di opere insigni che hanno goduto da subito del favore dei lettori, il successo non è di per sé prova della bontà di un testo. Lo diceva già, in chiave di paradosso, il grande Marcello Marchesi: «Mangiate merda. Milioni di mosche non possono sbagliare».