Dopo tanto criticare, più o meno sensato, da parte degli “sviluppisti” di ogni forma e colore alla decrescita felice alla Latouche, siamo entrati a gonfie vele nell’età della decrescita infelice. Mentre i politici e la maggior parte degli economisti studiano i modi per far crescere il Pil, il Pil non cresce, non solo in Italia, ormai tecnicamente in recessione, ma nemmeno in quelle che sono state in Occidente le locomotive della crescita che abbiamo alle spalle. Emerge una verità scandalosa.

Che la crescita e la cultura economica e politica che l’ha animata, non solo distruggono ambiente e territorio ma non producono nemmeno maggior sviluppo. In molti avevano provato a spiegarcelo. Il ciclo del consumismo dissennato che aveva trainato la crescita degli anni felici si è inesorabilmente bloccato. Produrre di più con meno persone al lavoro- questa è stata la ricetta della produttività e della competitività nei paesi dell’Occidente e questo è stato il modello che si è provato a imporre al mondo intero- alla fine raschia il fondo del barile.

Se diminuiscono i salari e il numero di chi li percepisce, è impossibile tenere alto il livello dei consumi. La finanziarizzazione dell’economia, che ha permesso per un po’ alle persone e agli Stati di comprare indebitandosi, si è bloccata, travolta dall’insolvibilità dei debiti che essa stessa ha sollecitato. Se lo sviluppo continuerà ad essere misurato sul Pil e sulla crescita dei consumi probabilmente lo sviluppo si è bloccato per sempre. E se le persone continueranno a vedere nel possesso di beni la chiave per la felicità sono destinate ad essere sempre più infelici.

Nel frattempo si fa strada una ragione ancora più profonda di insicurezza e di infelicità. La preoccupazione per il riscaldamento climatico, per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, per la fragilità del territorio rispetto ai sempre più frequenti “eventi estremi”. Secondo un recentissimo sondaggio Swg, riguarda l’81% degli italiani. E si comincia a capire come ci sia un rapporto stretto fra il degrado ambientale e la cementificazione del territorio e l’uso privilegiato delle energie fossili.

Nonostante tutte le prediche sullo sviluppo sostenibile i dati in proposito ci dicono che l’unico stop significativo all’aumento del CO2 nell’atmosfera è avvenuto negli anni peggiori della crisi economica. E però gli esponenti del partito del Pil, trasversali a tutti gli schieramenti politici, continuano a progettare una crescita basata sull’intensificazione dell’uso dei combustibili fossili, magari a prezzi più bassi per difendere la competitività delle nostre imprese. E a progettare grandi infrastrutture considerando come una variabile secondaria il loro impatto sul territorio e sulla vita di chi ci abita. Uomini, animali, piante. In nome di una crescita trainata dall’ulteriore intensificarsi degli scambi di merci, anche quando i numeri ci dicono che questi scambi stanno rallentando.

Persino chi dentro il governo sembra più sensibile alle ragioni dell’ambiente, il Movimento 5Stelle, finisce per giustificare una misura come il reddito di cittadinanza come ossigeno necessario alla crescita del Pil, e a vaneggiare su un nuovo miracolo economico alle porte, la cui prevedibile assenza alimenterà ancora di più l’infelicità futura. I sovranisti autoritari- da Trump a Salvini- contrappongono l’occupazione alla lotta al riscaldamento climatico. L’ambientalismo, come l’accoglienza dei migranti, è una roba da ricchi, per chi ha la pancia piena. E propongono vecchie ricette che distruggono l’ambiente e la dignità del lavoro.

E non costruiscono lavoro stabile, perché nessun lavoro dura se contribuisce a distruggere il mondo in cui viviamo.

Basterebbe guardarsi intorno per vedere le macerie che un’idea dissennata della crescita ha provocato. La speculazione edilizia ha prodotto centinaia di mega edifici vuoti, che non trovano compratori. Accanto agli scheletri dei capannoni industriali cominciano a comparire gli scheletri dei supermercati abbandonati.

L’assenza di una cultura del riciclo, del riuso, della manutenzione, nell’epoca dell’usa e getta applicato alle cose e alle persone, ci presenta un conto salatissimo. Accanto alle lavatrici, ai frigoriferi, ai computer gettati in discarica, cominciano a comparire le macerie dei ponti, delle scuole, delle strade.

La ragione e l’esperienza dovrebbero insegnarci che la vecchia strada è bloccata e che bisogna intraprenderne una nuova. Ma la ragione e l’esperienza non bastano, ad una economia e a una politica che si ritrae di fronte alla possibilità di immaginare un futuro diverso, in cui la buona vita, la cura dei beni comuni, la salute e l’istruzione prendano il posto del Pil come misuratore del benessere delle persone e dei territori . Contro il senso comune che ci inchioda al vecchio mondo che muore.