Dopo la solare, spiritosa, all/old American incarnazione di Christopher Reeve (3 film, tutt’ ora insuperati, anche i meno belli della trilogia), la Wb aveva affidato il compito di riportare Superman sulla terra (e in auge la sua franchise) a Bryan Singer. Ma Superman Returns (2006) si era rivelato un oggetto di taglio troppo personale, raffinato, e idiosincratico per poterci costruire sopra una nuova serie. Lo studio è quindi ricorso all’autore del reboot più di successo della storia, e uno dei registi più sopravvalutati dell’action adventure hollywoodiano. Christopher Nolan ha scelto di non dirigere Man of Steel, passando quella palla a Zack Snyder e assorbendo il progetto in qualità di produttore. Ma l’imprint è tutto suo, a partire dalla scelta di co-sceneggiatore (David Goyer, quello dei nuovi Batman e dei Blade, oltre che di un futuro Godzilla e di un nuovo The Invisible Man), continuando con la passione per il racconto monumentale, le suggestioni e l’iconografia fascistoidi, le roboanti musiche di Hans Zimmer e l’abitudine a una totale desaturazione del colore che immerge in tono marrone la cappa rossa, il costume azzurro e persino gli occhi blu di Henry Cavill, aka Clark Kent, aka Superman.

Insomma, pensare a Batman, light. Senza Christian Bale, i gadget e l’allegro/sinistro bestiario gotico dei suoi personaggi collaterali inizia su un pianeta che sembra quello di Avatar solo senza i colori e la natura. È Krypton, e la sua sopravvivenza è a rischio. ll capo degli scienziati Jor El (Russell Crowe) e quello dell’apparato militare, il generale Zod (Michale Shannon, al suo esordio nell’azione a megabudget) hanno idee molto diverse su come affrontare la crisi. Zod prevale e, anticipando la distruzione totale, Jor El, affida il suo neonato Kal El a un marchingegno spaziale che lo porterà su un pianeta dall’atmosfera compatibile. In gioco non è solo la continuazione della stirpe degli El, ma quella di tutti i superstiti di Krypton, la cui possibilità di vivere installandosi altrove è iscritta nel dna del bebè. La metafora cristologica è sempre stata parte del mito di Superman, però i film con Reeves la trattavano con levità. La coppia Nolan/Snyder non ha niente di lieve….Il loro giovane Kal El, ribattezzato Clark Kent dopo essere stato trovato da Kevin Costner in un campo del Kansas, cresce nascondendo i suoi superpoteri e facendo lavori umili – non proprio il falegname ma quasi.

Lo sottrae al suo anonimato la premiatissima reporter Lois Lane (Amy Adams) che risale alla casetta del Kansas (dove c’è anche Diane Lane), «miracolo» per miracolo, ripercorrendo l’elusiva pista del ragazzo che l’ha salvata dall’attacco di un alien volante mentre era intenta ad esplorare un’astronave sepolta ne ghiaccio (!). Un bus pieno di bambini caduto in un fiume, una piattaforma petrolifera in fiamme che sta per abbattersi sui suoi operai…..Tutti inspiegabilmente salvati.
Questo Superman fa le cose in grande anche da piccolo. Non perde tempo (come faceva quello di Donner) a salvare gattini e aiutare vecchiette –perché è totalmente privo di humor. Anche Zod e i suoi (che sembrano un po i cattivi di Dune), dopo un lungo esilio stellare, scovano le tracce di Clark Kent e chiedono ai terrestri la sua consegna immediata. Kal El non si fida del generale, che tra l’altro ha assassinato suo padre, e va a chiedere consiglio a un prete, che lo invita a…… «credere», in sostanza fidarsi della razza umana per cui si sta sacrificando. Molto alla Ponzio Pilato, nel frattempo, i capi dello stato maggiore accettano le condizioni di Zod. L’inevitabile, interminabile scontro finale (con Lois Lane e Diane Lane alternativamente in pericolo) è un tripudio di body slamming, niente coreografia ma alto impatto (super) corpi che si schiantano uno contro l’altro, contro edifici, muri di pietra….

Il livello di distruzione è massiccio e francamente anche molto inutile, perché, a differenza di quelle di Michael Bay (Singer o Matt Reeves) queste cacofonie digital/audio/visive sono completamente prive di senso dello spazio e dello staging nell’inquadratura, quindi non danno nemmeno il piacere, elementare, tutto emotivo, del cinema astratto. Mai un regista elegante o particolarmente capace, Snyder ha dimostrato in passato almeno un certo gusto per il camp (300). Qui è totalmente incorporato nelle funerea pompa nolaniana. Un film noioso da cui, paradossalmente, si esce esausti.