Sfondata la soglia psicologica dei +90mila nuovi contagi di coronavirus giornalieri, l’India da ieri è ufficialmente il secondo Paese al mondo più colpito dalla pandemia globale. I casi totali registrati superano i 4,2 milioni, solo gli Usa ne hanno individuati di più. Le morti di Covid-19 registrate dall’inizio della pandemia sono poco meno di 72mila, terzo Paese dopo Usa e Brasile.

Ciò che più preoccupa, al di là di numeri assoluti da interpretare in filigrana alla seconda popolazione più numerosa al mondo (1,3 miliardi di persone), è il comportamento della curva dei contagi: a differenza di Usa e Brasile, in India ancora disegna una parabola ascendente, stabile sin dai primi di marzo. Da un lato, significa che le misure di contenimento messe in campo durante i primi mesi del contagio non hanno ottenuto nessun effetto positivo sensibile. Paralizzare i centri urbani imponendo misure di distanziamento difficilmente osservabili in contesti di sovraffollamento forzato ha invece contribuito alla diffusione di nuovi focolai nelle zone rurali, alimentati da milioni di lavoratori migranti in fuga dalla disoccupazione forzata nelle città.

D’altro canto, l’aumento vertiginoso dei contagi registrati indica anche una maggiore capacità della macchina statale di individuare e tracciare la diffusione del virus coi tamponi. A marzo l’India ne faceva 0,1 ogni mille abitanti; oggi siamo intorno allo 0,8 (in Usa il rapporto è 2,4, in Italia siamo intorno all’1, dati Organizzazione Mondiale della Sanità).

Al momento le zone più critiche in India sono gli stati di Andhra Pradesh, Tamil Nadu, Karnataka, Maharashtra e Uttar Pradesh: complessivamente, da questi cinque stati provengono oltre il 60 per cento dei nuovi casi registrati giornalmente.

Altra variabile da tenere in considerazione è la «positivity rate», cioè il rapporto tra il numero di test fatti e quelli che risultano positivi. In India è intorno all’8 per cento e in diminuzione. Significa che il virus non sta necessariamente diffondendosi alla stessa velocità dei nuovi contagi, ma che ora l’India sta raccogliendo più dati e misura un po’ meglio la situazione reale della pandemia.

Cosa si possa fare ora per invertire la tendenza è un dilemma che potrebbe non avere una soluzione fino alla somministrazione su ampia scala del vaccino. Il quotidiano Indian Express, a questo proposito, è lapidario: «Gli scienziati ammettono che l’epidemia in India è arrivata a uno stadio in cui è improbabile che qualsiasi intervento governativo faccia alcuna sostanziale differenza nella velocità a cui vengono individuati i nuovi casi».

Al momento, salvo sporadiche misure di lockdown notturno o nei weekend, la dottrina del governo guidato da Narendra Modi si attiene alle decisioni prese nel mese di giugno: riaprire il più possibile, cercando di limitare i danni all’economia che mesi di blocco totale delle attività produttive di certo porteranno al Paese. Danni gravissimi, già evidenti nelle cifre ufficiali diffuse dal governo. Il primo trimestre dell’anno fiscale 2020-2021 ha registrato una flessione del Pil vicina al 24 per cento, peggior dato di sempre.

Tra aprile e giugno sono stati persi quasi 19 milioni di posti di lavoro salariato, principalmente nei centri urbani. Che sono, a loro volta, una frazione dei lavori che tengono in piedi l’immenso «settore informale» dell’economia indiana: l’«economia ombra» che manda avanti il Paese, contribuisce tra il 20 e il 40 per cento al Pil indiano e impiega, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il 92 per cento della forza-lavoro indiana. Per loro, come sempre, si attendono le approssimazioni ufficiali di New Delhi.