Felice definizione, quella di “compromesso storico”, sull’accordo dei 27, tanto nel sostantivo quanto nell’aggettivo, purché letti insieme, senza condanne preconcette né entusiasmi da corrida. Un accordo fatto per la Ue, dalle sue istituzioni e dai paesi che la compongono non dovrebbe essere valutato con l’ottica dei vantaggi nazionali, compreso il nostro.

Tema importantissimo, ma conseguente. Serve un punto di vista sugli effetti per il presente e il futuro che l’accordo comporta per una Ue ove non pochi erano i segnali di implosione.

Conviene partire dalla individuazione delle sfide che la crisi pandemica e la terribile recessione economica che ne deriva, sommata ai guasti di quella del 2008, ci presenta.

Queste possono riassumersi schematicamente in tre punti. I

l superamento delle politiche dell’austerity, comprese quelle della ossimorica versione “espansiva”, quindi la creazione di un debito comune e l’erogazione di un volume di aiuti e prestiti congruo.

La governance della ricostruzione posta nelle mani delle istituzioni europee e non di accordi e strumenti intergovernativi.

Il ridisegno geopolitico in senso meno sbilanciato del peso delle forze nella Ue, ovvero il superamento dell’assoluta preminenza dell’asse franco-tedesco e la sconfitta, o quantomeno il sensibile ridimensionamento, dei “frugali”, di Visegrad e delle forze sovraniste.

Se questa era la posta in gioco si vede che la svolta interviene principalmente sul versante della prima sfida.

Anche qui con più di un’ombra dovuta, e non solo, al rapporto più contenuto fra prestiti e aiuti e al taglio dei fondi per clima, ricerca e sanità, che, a quanto pare, la stessa risoluzione dell’Europarlamento si appresta a stigmatizzare nell’imminente riunione.

Il flusso di denaro fa impallidire quello del piano Marshall, secondo un paragone un po’ spericolato tra epoche e assetti geopolitici profondamente diversi.

Soprattutto, pur non dando vita a veri e propri Eurobond, si è scelta la soluzione di autorizzare la Commissione europea a contrarre prestiti sui mercati dei capitali.

Si è dotata la Ue anche di una capacità di imposizione fiscale, stabilendo che il bilancio potrà essere aumentato da tassazioni sovrannazionali, anche se per ora sono certe per la plastica e solo probabili per le emissioni e il digitale, con qualche speranza in futuro di una sorta di Tobin tax.

Ma la dimensione intergovernativa degli assetti europei è tutt’altro che superata.

La Commissione ha solo, per quanto ampio, potere proponente ma non dirimente in merito alla valutazione dei programmi nazionali cui sono legati i finanziamenti e alla possibilità di sospenderli in caso di non congruità con gli indirizzi europei.

A decidere sarà il Consiglio, seppure non all’unanimità come voleva Rutte, ma a maggioranza qualificata. Il che costituisce un assurdo logico-istituzionale poiché in fondo si stabilisce una gestione intergovernativa di fondi che, grazie al finanziamento con tasse europee, non deriverebbero più soltanto dai trasferimenti nazionali.

Senza contare che anche l’annacquatissimo criterio dello stato di diritto è lasciato alla valutazione del Consiglio.

All’inizio di questa partita si era aperto uno spiraglio di grande significato: la nascita di una intesa fra i paesi mediterranei che lambiva persino la Francia, mettendo in forse il tetragono asse franco-tedesco. Poi la porta è tornata sui vecchi cardini. Della famosa proposta spagnola si sono perse le tracce, l’Italia si è aggregata al ricostituito ponte di comando Merkel-Macron, i paesi sovranisti, seppur non vincitori, rosicchiano qualcosa. Un passo indietro rispetto alle potenzialità iniziali.

Cifre ingenti, ma l’accordo qualitativamente è fragilissimo, legato agli umori politici prevalenti negli stati dominanti.

Perciò sarà importante lo scontro sull’utilizzo dei fondi e il superamento nei Trattati del patto di stabilità.

Da noi le prime note sono stonatissime. Di Maio dichiara che con i soldi europei si abbassano le tasse (per chi?): di nuovo prigionieri delle virtù taumaturgiche del mercato. Se non si ristabilisce una forte progressività fiscale, patrimoniale inclusa, si gonfieranno le solite tasche. Si insiste sulla Tav e addirittura riciccia il Ponte sullo Stretto.

La ripresa – che in ogni caso non sarà a “V” anche per Bankitalia – non è cosa delegabile al governo. Se ne dovrà occupare direttamente la sinistra, se torna ad esistere, i movimenti, il sindacato. E non è cosa da guanti bianchi.