«Loculi» senza aria né luce in cui sono stipate quasi trecento persone, più della metà delle quali bambini, stipate in un ex magazzino e costrette a vivere «in una condizione di segregazione abitativa e sociale che non è più tollerabile», come spiega Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato che ha vistato il «Best house Rom» di via Visso, a Roma, insieme a Carlo Stasolla dell’Associazione 21 luglio e al consigliere radicale di Roma Capitale Riccardo Magi. Tutti hanno chiesto al sindaco della Capitale Ignazio Marino la chiusura della struttura e l’avvio di un percorso di superamento dei «campi rom» attraverso l’individuazione dei percorsi di inclusione sociale. Nel corso della visita, la delegazione è stata raggiunta dall’assessore alle Politiche sociali di Roma Francesca Danese, che ha definito il centro «un mostro, una bruttura figlia delle proroghe dietro le quali si è insediato il malaffare» e si è impegnata a garantire agli abitanti di via Visso una sistemazione dignitosa.
Questo segnale di attenzione da parte dell’amministrazione capitolina potrebbe rappresentare il primo passo concreto verso l’adozione di un approccio diverso da quelli che hanno contraddistinto finora la città di Roma e non solo. Sono passati molti mesi dall’approvazione, nel febbraio 2012, della «Strategia nazionale di inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti», che avrebbe dovuto segnare l’inizio di un nuovo orientamento delle politiche pubbliche nei confronti delle minoranze rom e sinti nel nostro Paese con l’adozione di interventi specifici per mettere fine alle condizioni di estremo degrado e vulnerabilità in cui quelle popolazioni sono costrette a vivere da decenni. Il lavoro, nonostante l’attivazione di numerosi tavoli, procede con estremo ritardo, soprattutto nel campo delle politiche abitative.
Sono circa 40.000 i rom e sinti che abitano ancora oggi nei campi, insediamenti, formali e informali, ai margini di molte città italiane, mentre il numero totale di rom e sinti nel nostro paese viene stimato, della Commissione europea, tra i 110.000 e i 170.000. Ottomila solo a Roma. La maggioranza delle famiglie vive dunque in una casa. E continuare a parlare di nomadismo appare improprio anche considerando che solo una minima parte, circa il 3%, della popolazione rom risulta che si sposti sul territorio per svolgere attività lavorative stagionali. Il nomadismo è stato per decenni considerato un tratto identitario di queste minoranze e sulla base di questo presupposto, sbagliato e ormai del tutto superato, si è proceduto nel nostro paese: campi, aree di sosta, aree di transito, aree attrezzate sono state finora le diverse declinazioni di un’unica soluzione abitativa ritenuta la sola percorribile e che ha ottenuto come risultato la segregazione abitativa e, di conseguenza, l’esclusione e l’autoesclusione sociale delle comunità rom.
Colpisce oggi, alla luce delle inchieste giudiziarie delle ultime settimane, ripercorrere le tappe più recenti e scottanti di questa fallimentare strategia: dalla «dichiarazione dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi» del 2008, decretata in alcune regioni per gestire una situazione di «grave allarme sociale», e dalla contestuale ordinanza dell’allora presidente del consiglio Berlusconi «per fronteggiare lo stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nel territorio della regione Lazio» fino al regolamento del 2009 da cui prende vita il cosiddetto «Piano nomadi». Si pianifica un sistema che, a partire dagli sgomberi forzati degli insediamenti abitativi esistenti, costringe di fatto oltre 6.000 persone alla esclusione e alla totale dipendenza dagli interventi assistenzialisti del Comune. Un sistema contrario fin dalle premesse al principio della non discriminazione e che costa, tra il 2009 e il 2013, oltre 32 milioni di euro, a cui se ne aggiungono altri 30 per gli sgomberi e per la gestione, la manutenzione ordinaria e la fornitura dei vari servizi legati ai campi autorizzati. Tutta la sciagurata operazione è stata negli anni condannata e smontata in ogni suo pezzo. A partire dalle sentenza del Tar, del Consiglio di stato e, da ultimo nel 2013, della Cassazione che hanno permesso di chiudere sulla carta la stagione dell’emergenza, dichiarandola illegittima. Fino alle recenti inchieste della magistratura. Le associazioni lo hanno denunciato, inascoltate, per anni ma ormai è chiaro a tutti che è stato lasciato spazio alla illegalità e alla corruzione per permettere a molti di arricchirsi sulla pelle dei rom, rendendo sempre più aggrovigliata una situazione di per sé complessa e delicata.
A Milano, Torino e, si spera, anche a Roma, qualcosa comincia a muoversi. Si tratta di voler affrontare, politicamente, un nodo quasi inestricabile, che avrà bisogno di interventi lungimiranti e graduali, ma sempre più urgenti, partendo dal superamento dell’approccio assistenzialista e mettendo al centro la dignità e il rispetto dei diritti.