Un superoe col volto sfregiato «come una mappa topografica dello Utah» o «come un avocado marcio che ha fatto sesso con un avocado più vecchio di lui», sboccato, corrotto, sadico, logorroico, depravato e che si vende al miglior offerente, incassa mezzo miliardo di dollari, in due week-end: con l’arrivo in sala di Deadpool la Marvel ribadisce il suo dominio del cinema d’azione contemporaneo e moltiplica il suo quoziente «meta».

Il personaggio creato nel 1991 dal disegnatore Rob Liefeld su testi di Fabian Nicieza è infatti il più autoreferenziale, autoironico e nichilista dei supereroi della casa resa grande da Stan Lee e Jack Kirby – un ex soldato delle forze speciali, riciclatosi come mercenario in calzamaglia rossa, dotato del potere di essere indistruttibile (le ferite si cicatrizzano istantaneamente), incapace di tacere anche solo per una frazione di secondo e perfettamente conscio di essere un fumetto.

Dopo i funkissimi guardiani dalla galassia e il malin-comico Antman, l’entrata in scena di questo in-giustiziere iconoclasta, nell’arena di Spider man e degli Avengers, potrebbe contribuire un elemento di decostruzione interessante, se Deadpool non fosse un film così deprimentemente brutto, cosi ansioso di essere hip e «offendere» da togliere l’aria.

Girato in una gamma di grigi ottusi (pensare invece all’invenzione cromatica di I guardiani della galassia), incapace di dare alle scene d’azione (addirittura noiosa quella iniziale sul ponte) un corrispettivo dello spirito iperbolicamente cubista dei suoi testi (firmati da Rhett Reese e Paul Wernick, già autori dello scalcagnato Zombieland), il film di Tim Miller camuffa dietro al «costume» di un hacker virus che non risparmia nessuno – come il fiume di fiele che esce dalla bocca del suo protagonista – un film tarato a tavolino sul senso dell’umorismo di un executive hollywoodiano di mezza tacca.

Una strizzatina d’occhio di un’ora a quaranta per rassicurare la platea della sua coolness e la critica di non essere stata resa obsoleta dalla Marvel invasion. In cui, per essere sicuri che non ci sfugga proprio niente, Deadpool sottolinea a parole tutto quello che succede rivolgendosi direttamente al pubblico.

Ryan Reynolds – un attore mediocre che fa la parodia di un supereroe mediocre- con un timbro di voce petulante, spesso sull’orlo del falsetto (la sessualità di Deadpool è… varia), è Wade Williamson, indurito da un passato nelle forze speciali, in procinto dall’essere redento dall’amore di una simpatica prostituta (Morena Baccarin, la moglie di Brody in Homeland) quando scopre di avere un cancro all’ultimo stadio.

Grazie al patto con un diavolo sotto forma di mutante biondo, con l’aria ariana e l’accento inglese, che si chiama Ajax, Williamson si sottopone a una lunga serie di torture da cui uscirà mutante, immortale. E ancora più incazzato di prima. Non c’è gioia nella sua vendetta e nello spirito dissacrante di questo film.

Il potere eversivo dell’umorismo demenziale sta nella sua capacità di essere contagioso, irresistibile. Di costringerci a ridere delle cose più indigeste. Dopo la visione di Deadpool, al massimo, viene voglia di farsi una doccia.