A Marcel Khalifé basta dare il la e a cantare ci pensa la platea. Ma niente di sgangherato: anche in questo gioco, come nel suo porgere con un pathos pacato, Khalifé è estremamente signorile, mentre gli spettatori, composti, educati, cantano con eleganza a mezza voce. Fra loro molte donne: donne giovani, donne anziane, donne col velo o senza. Tutti seguono attentissimi, col rispetto che si deve ad un emblema della canzone araba. Che cosa c’è di sacro nella musica di Marcel Khalifé, che giustifichi il suo inserimento in un festival come Musiques Sacrées du Monde, sul palco principale, nella monumentale cornice di Bab Al Makina, una delle porte che si aprono nella cinta di mura della Medina? Di certo c’è il sacro dei sentimenti: «Amo la vita, perché se morissi avrei vergogna delle lacrime di mia madre», recita una delle poesie del grande poeta palestinese Mahmoud Darwish che Kahlifé ha messo in musica: una canzone che, barba e lunghi capelli bianchi al vento, offre accompagnandosi da solo con l’oud.

E, SE NON è il sacro, c’è però quel qualcosa di eletto in Khalifé che è l’integrità artistica, e quel rappresentare degnamente il sentirsi arabi in cui il pubblico di Fès si identifica profondamente. Nato nel ’94, e poi svoltosi ogni anno dal ’96, il festival del resto propone in cartellone di musiche che solo in parte attengono alla religione e allo spirituale: dietro l’intestazione il senso di fondo della manifestazione è più in generale quello del dialogo delle fedi e delle culture, della tolleranza e della pace, nel solco di quella civiltà della Spagna arabo-andalusa – nella quale convivevano musulmani, ebrei e cristiani – di cui Fès è stata storicamente la maggiore erede. Di un mondo arabo aperto parla la musica di Khalifé – piano (il figlio Rami), fisarmonica, violino, clarinetto, basso elettrico e percussioni – una musica leggera di impronta arabo-moderna e di respiro internazionale, con uno stile che può far pensare vuoi al gusto di un George Moustaki, vuoi alla lucidità di Piazzolla.

Khalifé è da tutti i punti di vista un personaggio perfetto per Musiques Sacrées: nato in un paese multiculturale come il Libano da una famiglia cristiano-maronita, è cresciuto ascoltando musica cristiana e recitazioni del Corano, si sente arabo, ha solidarizzato con la causa palestinese, e fra le canzoni che ha ricavato da poesie di Darwish c’è Rita, in cui il poeta parla della guerra (dei sei giorni) che lo ha costretto a dividersi dalla giovane ebrea che aveva conosciuto ad Haifa e amava: Khalifé sviluppa il brano a lungo, e il pubblico segue con partecipazione. Musiques Sacrées, alla venticinquesima edizione, è stato nell’ultimo quarto di secolo più che un semplice festival musicale: con la sua ispirazione multiconfessionale e multiculturale ha rappresentato una importante vetrina per l’immagine del Marocco, e per Fès ha funzionato egregiamente nel valorizzare la città come meta turistica e anche come volano per lo sviluppo locale, non senza rischi di gentrificazione ma anche con importanti effetti di riqualificazione urbana.

POI CI SONO dinamiche più sottili: i concerti di maggiore prestigio a Bab El Makina (oltre a Khalifé, Sami Yusuf, Youssou Ndour, l’Orchestra arabo-analou di Fès), con biglietti cari per il pubblico marocchino (25/60 euro), sono una occasione di incontro privilegiata per l’élite delle famiglie di Fès, una élite che non è solo di ricchezza ma anche di orgogliose e plurisecolari radici in città. I concerti pomeridiani in varie sedi (dalla viola da gamba alla santeria cubana, dai canti sacri irlandesi alla musica sufi del sultanato di Oman) raccolgono un pubblico soprattutto europeo. Per tutti ci sono i concerti gratuiti nella grande spianata di Boujloud, con popolari artisti marocchini, come una cantante di temperamento, con l’impronta delle cheikhates, come Saida Charaf, o Zakaria Rafouli, col suo raï un po’ approssimativo. Ma lo spettacolo, nella piazza illuminata a giorno, e con un massiccio dispositivo di polizia, non è solo sul palco: famiglie intere, bambini e/o ragazze accompagnate dalla mamma o dalla nonna, gruppi di adolescenti maschi, piccoli che giocano e si inseguono.

ALLE UNDICI poi le «notti sufi», con le confraternite islamiche come la Tariqa Hamdouchia: un folta compagine di uomini seduti per terra che cantano, con una mezza dozzina di voci soliste e alcuni strumenti, in un clima conviviale che diventa sempre più animato, fino alle ore piccole. La passione per questo tipo di pratica non è di massa come quello per altri generi come l’issawa tanto richiesta per i matrimoni, ma ha una forte base popolare: sui tappeti, ad assistere, nelle prime file e tra le più appassionate soprattutto donne, dalle madri con velo e bambini alle teenager in jeans e t-shirt.