Anticipata di un giorno rispetto alla tradizione, e diffusa solo via Twitter venerdì pomeriggio, la premiazione di Sundance 2022 è stata la conclusione, ma anche una metafora di quest’edizione del festival. Compressa, con un palinsesto meno strutturato (per via del passaggio dell’ultimo momento da un’edizione in presenza a una online), che non favoriva l’illusione di esperienza collettiva che gli organizzatori erano riusciti a creare l’anno scorso, nonostante le visioni fossero già in piattaforma. Come se, con la cancellazione delle proiezioni a Park City, lo sfinimento da virus arrivato con Omicron avesse risucchiato anche un po’ l’energia festivaliera.

UNA MALAISE, questa, che secondo alcuni agenti di vendita avrebbe contagiato i compratori – per ora le vendite annunciate non sono tantissime e nessuna ha sfiorato le cifre spese per Summer of Soul e Coda, i due grandi vincitori dell’anno scorso. Così, il secondo Sundance dal divano di casa – nonostante i ping pong di messaggini, con colleghi o amici, per scambiarsi dritte e delusioni – è stato un percorso perlopiù solitario, nella griglia del palinsesto. Da questo viaggio nell’annuale bolla indie, le tendenze più interessanti sono sembrate due: un’attrazione per il found footage, usato in alcuni documentari per scavare dentro al soggetto, evocare complessità e sollecitare associazioni mentali impreviste che hanno arricchito la caratteristica programmaticità del doc made in Sundance; e un flirt con l’horror o il soprannaturale, in particolare quello nella vena antirazzista di Jordan Peele.

FA PARTE di quest’ultima onda il film che ha vinto il gran premio per il concorso drammatico (in giuria Marielle Heller, la produttrice Chelsea Barnard e l’attore di Una separazione, Payman Maadi) Nanny, della sceneggiatrice/regista esordiente Nikyatu Jusus. La balia del titolo è Aisha (Anna Diop) una giovane madre senegalese, senza documenti, che raccoglie i soldi che le servono per portare il figlio dall’Africa a New York occupandosi della bionda bambina di una coppia newyorchese benestante. Jusus e il suo direttore della fotografia, Rina Young, usano il colore, la luce, lo spazio nell’inquadratura per contrapporre il fragile, povero, ma lussureggiante mondo di Aisha nella comunità west-africana di Brooklyn – che vediamo ricco di cultura tradizionale e calore umano – al microcosmo sterile, claustrofobico, del loft dove il matrimonio e la vita professionale stressanti dei genitori affliggono l’appetito della figlioletta. Aisha sostituisce lo spaghetto scotto, coperto di un grumo di salsa rossa, che attende tristemente Rose nel frigorifero, ai saporiti piatti di riso e verdure della sua terra. Ma il suo rapporto spontaneo con l’infanzia è reso complicato dalla presenza/assenza di quel bambino «lasciato indietro», aldilà dell’oceano, con cui comunica a fatica via FaceTime, quasi sempre in differenziata, visto che il fuso orario non permette di meglio. Entro breve una presenza minacciosa si insinua dentro al suo sguardo, nei suoi sogni e dietro alle superfici fredde dell’appartamento – il senso di progressivo, doloroso, straniamento dal mondo che la circonda che ricorda l’uso sottile del soprannaturale in Atlantique e il cinema africano che ha ispirato Mati Diop.

 

È STRIATO di horror ma più metaforicamente anche Emergency, commedia nera tutta in una notte diretta da Carey Williams, regista di televisione prima della rilettura di Giulietta e Romeo, R#J. Cos’è infatti se non l’equivalente di un mostro pericolosissimo il corpo privo di sensi di una teenager bianca che si materializza sul pavimento della casa di Kunle (Donald Elise Watkins), Sean (RJ Cyler) e Carlos (Sebastian Chacon), due best friends afroamericani e un compagno ispanico.
Quella che doveva essere una notte brava, di party in party, delle rispettive fraternity per festeggiare la fine dell’anno scolastico, si trasforma in un’odissea da incubo, punteggiata di istanti ilari quando Williams e la sceneggiatrice KD Davila (premiata per il miglior copione) passano del registro del thriller a quello della commedia con agile irriverenza. Mentre i tre amici cercavo invano di «fare la cosa giusta», e cioè soccorrere la sconosciuta portandola all’ospedale, senza però attirare l’attenzione della polizia – da cui si aspettano il peggio di ogni cliché razzista – lei (Emma) è un bianco fantasma che si sveglia ogni tanto, mormora qualcosa e gesticola come una Carol Lombard ubriaca. Senza quasi mai sapere cosa succede. Dal fanalino rotto (un classico del fermo di polizia banale in cui un afroamericano può lasciarci la pelle), al fratello maggiore macho e fumatissimo che non può aiutarli perché è fuori con la condizionale, ai fratboys togati che li inseguono nella notte, al quartiere bianco benestante e a quello nero malandato, Emergency è una via crucis a bordo di un pulmino scassato.

È IL POLSO di Emma che si fa sempre più lento, il suo corpo sempre più freddo, ma in gioco è la vita di tutti e quattro a partire da Kunle che è appena stato ammesso a Princeton e sogna di diventare un medico. Un ritratto dell’eccellenza nera che si trova con la faccia schiacciata sull’asfalto, in un crescendo troppo scritto e calcolato che appiattisce l’istinto sovversivo del film.
Interessante, pur se confuso, per l’uso del soprannaturale e dell’horror in concerto con un discorso critico sulla razza anche Master della newyorchese Mariama Diallo, ambientato in un college della Ivy League letteralmente stregato dalla Storia, e incentrato su una studentessa, una direttrice di dipartimento e una professoressa afroamericane.