Anche quest’anno il festival di Robert Redford ha dovuto fare a meno delle sue montagne. Originalmente previsto in edizione «ibrida», la kermesse – con buona parte dei biglietti già venduti – è stata costretta ad una precipitosa retromarcia di fronte al picco di Omicron, ed a ripiegare su un’ edizione interamente in remoto. E c’è da dire che con buona probabilità il festival manterrà anche in una futura normalizzazione, una dimensione streaming che ha sensibilmente ampliato il pubblico. Le ultime edizioni registravano 120 mila presenze, ma queste sono raddoppiate come visualizzazioni online (fino a 250 mila – ma il festival stima 500 mila spettatori.)

Niente corse trafelate nella neve, quindi, per acciuffare la terza proiezione del giorno, niente file chilometriche al gelo o nelle tende surriscaldate o interminabili camminate fra cinema ubicati sconvenientemente lontani gli uni dagli altri. Come amava ripetere Redford, solo in parte scherzando, il festival non è mai stato concepito per la comodità, ma per mettere semmai alla prova la voglia di cinema.

Occorre precisare che da quando questa sfida è stata lanciata nel 1981 il cinema indie è radicalmente mutato: cooptato prima dalle divisioni specialty degli studios che di Park City avevano finito per fare una specie di dependence invernale hollywoodiana, paracadutando quantità industriali di glamour après-ski, uffici stampa e macchinari promozionali. Il tutto ha contribuito già da anni ad una crisi di identità con cui hanno fatto i conti i direttori Geoff Gilmore (anni 90) e successivamente John Cooper (2009-2020) incaricati di custodire la visione di patron Redford, presenza sempre più rada eppure percepibile sul festival – e sul Sundance Institute l’incubatore per nuovi film maker attraverso i celebri Labs.

Oggi in era Netflix & co., il panorama è ancora cambiato – soprattutto in meglio, data la richiesta apparentemente senza fondo per materiale originale anche di autori emergenti, senza il ferreo controllo creativo che pretendevano gli studios. Vero è però che si tratta pur sempre di un meccanismo industriale che in certa misura chiama in causa il ruolo stesso dei festival. Il Sundance di oggi, sotto la direzione di Tabitha Jackson, produttrice di documentari proveniente da Channel Four e dallo stesso Sundance Institute (e che collabora con a programmatrice Kim Yutani) ha ampliato la politica del punto di vista non-hollywoodiano per privilegiare lo sguardo generalmente «dal basso».

La scelta si estende alla composizione della stampa accreditata in cui vengono incoraggiate le domande di minoranze etniche e culturali col proposito di ampliare anche la critica, la fruizione dei film, a sguardi non egemoni.
I dati relativi alla presenza femminile nelle scuole di cinema (50%) e nei film prodotti (il 4,8%) sono rilevati da Nina Menkes in Brainwashed Sex Camera Power, il suo film-saggio passato quest’anno nella sezione premieres. Menkes regista sperimentale californiana (Magdalena Viraga premio della critica nel 1986) distilla le istanze metoo avanzate negli ultimi anni in una critica estetica e femminista che decostruisce lo «sguardo maschile» egemone nel cinema partendo dalla formulazione del termine da parte della critica Laura Mulvey, intervistata nel film assieme a decine di registe e teoriche.

Sundance si pone l’obbiettivo curatoriale di contrastare attivamente questa egemonia. Quest’anno sguardi alternativi erano rappresentati da film come Fresh di Mimi Cave, un horror (prodotto da Adam McKay) su un serial killer che rapisce giovani donne trovate su Tinder per un giro di facoltosi acquirenti di carne umana o il finlandese Hatching, di Hannah Bergholm in cui le nevrosi di una adolescente ginnasta assillata dalla madre ambiziosa si materializzano in un’inquietante creatura uscita da un uovo gigantesco. O la commedia canadese Babysitter, di Monia Chokri, che parte dalla molestia in diretta TV di una giornalista sportiva collegata all’esterno di uno stadio e le conseguenze che l’atto ha sul matrimonio dell’uomo che la perpetra.

Esiste un estetica femminile o «minoritaria»? Ovviamente è difficile rispondere in termini così riduttivi, ma film come Sharp Stick, ritorno al festival di Lena Dunham (Girls) dopo l’esordio con Tiny Furniture, dodici anni fa, sembrano certo confermare almeno l’affermarsi, nei migliori dei casi, di una sensibilità espressiva che è mancata nella storia «ufficiale»- e quasi interamente maschile – del cinema. Sembra evidente, pure, che l’emancipazione di uno sguardo femminile storicamente penalizzato, sia una delle dinamiche principali del cinema oggi. Sundance, dove hanno trovato una piattaforma autrici come Chloe Zhao, Sofia Coppola, Debra Granik, Lynn Ramsay, Mary Harron, Emerald Fennell e tante altre, ha contribuito al movimento e ne è oggi un principale polo.

La postura «attivista» si estende ad ogni aspetto della «rappresentatività». Oltre un terzo degli 82 film selezionati quest’anno (su 3762 presentati) erano di autori identificati con minoranze etniche e il 10% di registi LGBTQ. Da oltre un decennio Sundance è diventato appuntamento imprescindibile per registi afro americani.

Quest’anno presenti con film come Master di Mariama Diallo, storia di fantasmi e razzismo in un campus universitario, Alice, di Krystin Ver Linden che immagina una piantagione sudista dove gli schiavi sono tenuti all’oscuro che vivono negli anni ’70 e Nanny di Nikyatu Jusu, vincitrice del gran premio con la sua storia di una colf senegalese a Manhattan.

Sono film migliori? Sono tutti bei film? Ovviamente no, non più né meno comunque di ciò che si pretenderebbe da ogni altro festival. Per di più ci sarebbe da domandarsi cosa si cela dietro la pretesa di eccellenza «pura» senza filtri e senza «quote» come vuole la critica che puntuale arriva dalla destra (ma non solo). L’obiettivo del Sundance è esplicitamente quello politico di promuovere il cambiamento in un momento significativo nel cinema e sullo sfondo di un paese in cui esiste una forte spinta reazionaria contro le conquiste e le istanze dei movimenti di emancipazione di genere ed anti colonialisti. E questo, anche a costo di qualche eccesso di correttezza politica nelle locuzioni stereotipate o nelle letture critiche, non è poco.