«Harvey Weinstein è un momento nel flusso del tempo». Così, durante la conferenza stampa d’apertura, Robert Redford (secondo una prospettiva filosofica che aveva adottato l’anno scorso per Trump – «i presidenti vanno e vengono») ha liquidato la domanda sulla presenza importante al Sundance (proprio negli anni formativi) dell’ex capo della Miramax.

A provare che l’era di «Harvey» – con le sue scenate pubbliche leggendarie, le aste/maratona notturne per aggiudicarsi un film, gli stuoli adoranti/timorosi di accreditati «industry» che lo circondavano dopo le proiezioni per carpirgli un verdetto o un’indicazione promettente – è finita (anche a prescindere da # metoo), bastava guardare il programma della prima giornata.

Recuperando un’usanza «grande public» – interrotta anni fa a favore del dare l’apertura a film del concorso più piccoli e sconosciuti – i due slot d’onore dell’opening night 2018 sono stati assegnati a Netflix e Amazon, con un film di finzione e un documentario, entrambi nella sezione Premiere. Nella tipica atmosfera di glamour-indie-dopo sci del festival, le piattaforme streaming di Ted Sarandos e Jeff Bezos hanno aperto Sundance rispettivamente con Private Life, di Tamara Jenkins e Generation Wealth, di Lauren Greenfield – due ritorni di habituè di Park City, dove Jenkins aveva trionfato con Savages, dieci anni fa, e Greenfield aveva vinto miglior regia con Lady of Versailles.

Un day one, quindi, dosatissimo, per riconoscere, con due registe donne, il momento culturale, insieme al ruolo chiave che Amazon e Netflix occupano nel cinema prodotto fuori dagli studios. E a cui si è aggiunta, altrettanto dosata, la scelta del brutto documentario Our New President, sulla febbre trumpista in Russia: 77 minuti in gran parte strappati a YouTube e alla tv di propaganda pro-Putin che sembra Fox News, montati per far rabbrividire di orrore e gioia il pubblico tradizionalmente liberal di Park City.

Il 37% dei lungopmetraggi di questa edizione sono diretti da donne, ha sottolineato il direttore del Sundance Institute Kari Putnam durante la conferenza stampa, un dato che il comunicato integrava con zelo quasi ridicolo (51% dei corti, per un totale di 80 film e di un 40% di registe donne al festival). Il festival di Redford ha sempre dato spazio al cinema delle donne, dei gay, degli afroamericani, dei nativi d’America, dei latinos.. – le «identity politics» sono parte della sua storia e del suo dna. Non hanno nulla di cui scusarsi.

Quest’anno però sembra si sia rincarata la dose. Dal punto di vista della comunicazione, ma non solo: anche la responsabile della divisione indipendente di una delle agenzie, che sempre di più controllano il flusso d’accesso al programma, mi ha detto che, nella selezione 2018, la politica delle identità ha giocato un ruolo decisivo. È troppo presto per dire se la qualità delle scelte reggerà «il mandato».

Ma un’altra caratteristica dell’evoluzione che aveva marginalizzato Weinstein e buyers della prima generazione come lui, prima che #metoo lo facesse a pezzi, è il potere delle talent agency. Oggi quasi tutti i film (non solo americani) arrivano al festival rappresentati da CAA, ICM, UTA, WME, che spesso ne hanno orchestrato i finanziamenti, per conto dei loro clienti, e dai cui grattacieli vetrati è stato partorito Time’s up. La dimensione corporate, normalizzata, di questo assetto non è del tutto rassicurante.

Come un’altra novità media friendly di Sundance 2018: «il codice di comportamento», che dagli impiegati è stato esteso anche agli ospiti del festival, insieme a una hotline per telefonare 24 su 24 in caso qualcuno sgarrasse.