Gli aspiranti premier erano undici, ieri scendevano a tre – Sunak, Mordaunt, Truss – oggi ne resteranno solo due. L’arcireazionaria Kemi Badenoch – ex-ministra delle pari opportunità, diventata assieme alla ministra dell’Interno Priti Patel il volto dell’anti-antirazzismo Tory – è fuori. È dunque il ministro delle finanze Rishi Sunak a vincere la quarta tornata di votazioni con 118 voti, +3 dalla precedente, seguito da Penny Mordaunt con 82 (+10), Liz Truss con 86 (ma in risalita, con +15). I 58 voti di Badenoch non le sono bastati, li farà confluire alla probabile vincitrice/tore, accontentandosi di aver svenduto al partito la patente farlocca di “multiculturale”.

Così, mentre il pianeta Terra brucia, il pianeta Tory continua ad accapigliarsi nella terza corsa alla leadership negli ultimi sei anni, popolata da imbonitori che fino a ieri erano entusiastica appendice del carrozzone Johnson. Stasera l’ultimo round restringerà la platea agli ultimi due contendenti. E il prossimo 5 settembre, col succitato voto della base, il partito parlamentare regalerà al paese il terzo primo ministro “unto” da una ristretta cerchia di anglicani bianchi inglesi, il tratto sociografico dominante della base del partito: circa 180mila iscritti. Sapete, meno dello 0,3 % dell’elettorato.

Il voto è segreto e il mercato delle giovenche in febbrile attività: il vantaggio di Sunak è indiscusso quanto labile, soprattutto per le manovre dei fanatici di Johnson che lo considerano – nemmeno troppo ingiustamente – un Giuda. Lui piace al grande capitale, mentre la li(g)nea Truss, che ricalca spudoratamente i tailleurini infiocchettati di Thatcher, si preannuncia quella da battere, già calatasi com’è nei panni d’indiscussa lady di legno. Mordaunt, l’unica a rappresentare quello che senz’alcun ombra di ironia viene definito il “compassionate Torysm” – una pennellata qui di diritti civili, uno schizzetto lì di liberalismo sociale, il resto la solita vecchia trimurti “God, Queen and Country” su cui i Tories hanno costruito il dominio parlamentare più duraturo della storia europea – sarebbe la vera sorpresa.

Nei dibattiti televisivi – uno solo finora, l’altro è stato cancellato perché hanno capito che gli stracci volanti per sete di potere danneggiavano il partito: ce ne sarà un ultimo lunedì sulla Bbc fra gli ultimi due candidati – nessuno è stato capace di parlare della cosa più importante: l’eco-causto che si avvicina al galoppo. Con i 38 gradi degli ultimi due giorni e i roghi sparsi a sud e a est della capitale, London’s burning come cantavano i Clash: solo, non di noia. Ma loro preferiscono sbracciarsi sui tagli alle tasse per contrastare la largesse a colpi di debito con cui Johnson ha tamponato la crisi pandemica.

Se pochi leadership contest del partito-regime britannico sono apparsi così spompati, la ragione è naturalmente sempre lui, “Boris”, che si era circondato di figure di seconda scelta per la guerra civile interna su Brexit. Su tutti continua a incombere la sempiterna ombra di Thatcher, l’unica donna politica nella cui scia appiccicosa sono finiti come mosconi distratti sia i conservatori che – cosa assai più grave – i laburisti targati Starmer (o Blair, o Brown, o Miliband). E thatcheriane in massimo grado saranno sia la leadership austeritaria di Sunak – il broker figlio di immigrati fattosi oscenamente ricco “da sé” – sia quella della piccolo-borghese ultra-atlantista Truss – che della Lady ha introiettato l’ethos bottegaio. Non male per un partito che con i Cameron, gli Osborne e i Johnson aveva riportato Eton a essere la fonte principale dei propri quadri dirigenziali, com’era ai bei tempi di Eden e Macmillan, per tacere ancor prima.