La catastrofe epidemica che si è abbattuta sull’Europa (insieme al resto del mondo) e le sue prevedibili conseguenze non hanno minimamente modificato la geografia politica del Vecchio continente. Semmai hanno ulteriormente irrigidito le già sclerotizzate divisioni che lo attraversano da tempo. Secondo uno scenario stantio che potremmo grossolanamente descrivere come segue.

A Est domina il cosidetto gruppo di Visegrad, guidato dall’Ungheria e dalla Polonia che, in una combinazione tra ricerca della competitività sul mercato europeo , una buona dose di demagogia nazionalista e il costante incremento di controllo sociale viaggia di emergenza in emergenza (prima quella migratoria, ora quella sanitaria) verso il compimento della cosiddetta “democrazia illiberale”, ovverosia una forma di dittatura plebiscitaria. A nord, con un querulo alleato più meridionale, l’Austria, si è consolidato il fronte dei sedicenti “frugali” che più correttamente converrebbe definire degli “avari”.

Questi paesi (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia), prescindendo dal caso indecente dell’Olanda, che attraverso il dumping fiscale e il controllo di snodi commerciali accumula importanti ricchezze, hanno un peso molto relativo, in termini demografici e produttivi, sull’ economia e sulla forza politica dell’Unione europea. Nondimeno, richiamandosi alla democrazia comunitaria, si sono investiti del ruolo di custodi di una morale creditizia che equipara gli immensi e impagabili debiti pubblici sui quali gira l’economia globale a banali principi di economia domestica: chi è nei guai va aiutato, ma poi dovrà restituire. Principio più consono agli usurai che a una realtà economica comunitaria. E comunque fuori dal mondo e dalla comprensione delle sue profonde interconnessioni.

C’è poi la compagine meridionale, quella degli indebitati storici, Grecia Portogallo, Italia e Spagna, gli ultimi due colpiti per giunta nella maniera più dura dalla pandemia. Per nulla solidali tra loro, nella perenne aspirazione ad essere ammessi nell’empireo dei virtuosi ( non va dimenticato l’infame abbandono della Grecia al diktat della Troika) ora sembrano fare fronte comune. Ma fino a un certo punto. In termini demografici ed economici hanno comunque un peso decisivo ma sono sottoposti a una pesante condizione di ricatto, non solo esterna ma anche da parte dei potentati economici e corporativi nazionali.

Infine, o meglio al principio, c’è il centro dell’Unione europea: Francia e Germania. La prima in un perenne gioco di equilibrismo tra nord e sud. Ora complice fino in fondo di Berlino, ora paese mediterraneo paladino di un riequilibrio delle politiche europee a favore dei paesi meridionali. Ma sempre in vista di un consolidamento del proprio ruolo storicamente privilegiato e dei vantaggi che ne possono derivare. E, al centro del centro, naturalmente la Germania. Con un occhio di riguardo per i pesi dell’Est, dove ha investito immense risorse. Vagheggiando un “cortile di casa” che però non faceva sufficientemente i conti con sentimenti di rivalsa non semplicemente “comprabili” sul mercato, e ora rivolti, più o meno esplicitamente, contro i principi della democrazia occidentale.

Con un occhio di riguardo verso la pattuglia degli “avari”, attraverso i quali mascherare e giustificare i propri interessi di creditore, la resistenza ad allentare i cordoni della borsa e la scelta di circoscrivere i costi della solidarietà europea. Con un occhio di riguardo anche verso il Sud, mercato essenziale per l’industria tedesca, nella doppia funzione di acquirente e fornitore che non può essere mandato in bancarotta senza decretare la fine dell’Unione europea. E, beninteso, con un occhio di riguardo nei confronti di Parigi, interlocutore decisivo per la sopravvivenza dell’Unione e per tenere a bada gli uni e gli altri.

Questo occhio egemone, fino al oggi, è stato quello attento e lungimirante della cancelliera Angela Merkel, che però sembra prossima ad abbandonare la scena. E non è affatto detto che l’equilibrio tra queste pressioni divergenti possa essere mantenuto nel futuro segnato da una crisi senza precedenti. Questo, dunque, il quadro desolante che ci offrono gli equilibri politici europei, quelli dell’ “Europa delle nazioni”.

Quella del capitale ha invece un interesse comune che attraversa e innerva i diversi contesti nazionali, abitandone i contrastanti raggruppamenti. Si tratta in primo luogo di scongiurare l’eventualità che la crisi pandemica metta in discussione il meccanismo di accumulazione, favorisca cioè una redistribuzione delle risorse a vantaggio della forza lavoro produttiva e riproduttiva tutta, quella stabilizzata, quella precaria e quella indipendente o non riconosciuta come tale.

L’impoverimento incombente non può essere insomma affrontato fuori da quello schema della “crescita” che convoglia tutte le risorse verso l’impresa, i profitti e la rendita con la promessa, sempre più ideologica e sempre meno reale, di uno “sgocciolamento” di benessere verso il basso. Su questo punto gli “illiberali”, gli “avari”, gli “indebitati” e gli “egemoni” finiscono col convergere, con qualche variante sul piano del soccorso caritatevole. Dalla corte di Karlsruhe, a Macron e Merkel, dal cancelliere austriaco al governo italiano succube di confindustria. Solo il timore di una insorgenza sociale di dimensioni pari alla catastrofe pandemica può fare da argine a questa gestione della crisi che, ancora una volta attraverso la tagliola del debito e dell’austerità, mira a rimuovere ogni ostacolo al processo di accumulazione. Gli olandesi non sono affatto peggiori di Bonomi.