Trentotto anni, solitario e malinconico,l’ispettore Avraham Avraham lavora in un commissariato della periferia di Tel Aviv. Secondo lui, in Israele i romanzi polizieschi sono destinati a un sicuro fiasco: «Qui da noi, quando c’è un delitto, di solito è stato il vicino, lo zio, il nonno, e non ci vogliono grandi indagini per scoprire il colpevole e sciogliere il mistero. Quello che manca qui da noi è proprio il mistero». Di romanzo in romanzo, è però molto probabile che Avi dovrà ricredersi. A cominciare dalla prima indagine di cui è protagonista e che muove dalla scomparsa di un ragazzino di sedici anni, uscito un giorno per andare a scuola e che non è mai più tornato.

Si presenta così Dror A. Mishani, classe 1975, editor e docente di letteratura all’Università di Tel Aviv, di cui Guanda ha pubblicato di recente Un caso di scomparsa (pp. 306, euro 18), traduzione di Elena Loewenthal, che segna il debutto nel nostro paese dell’ispettore della banlieue israeliana. Capace di mescolare l’intimismo di Amos Oz alla lucida inquietudine del noir scandinavo che ama tanto, quello di Mishani è uno dei nomi nuovi della narrativa dello Stato israeliano da tenere a mente per il futuro. Il suo è un esordio di grande impatto cui si può affiancare quello di Yishai Sarid, di cui e/o ha pubblicato lo scorso anno Il poeta di Gaza, altro noir dalle atmosfere rarefatte. L’occasione per incontrare Dror A. Mishani è stata offerta dalla sua partecipazione al Festival internazionale di letteratura e cultura ebraica che si è tenuta recentemente al Portico d’Ottavia di Roma.

L’ispettore Avraham sostiene che in Israele non c’è posto per il noir, perché?

Ci sono almeno due ragioni, sia storiche che, per così dire, di natura sociologica che lo spiegano. La prima è che fin da quando è nata, verso la metà dell’Ottocento, la letteratura ebraica si sente in dovere di trattare temi «importanti» come l’identità ebraica, l’identità nazionale, «dove stiamo andando», «chi siamo» e via dicendo. Si racconta che all’inizio degli anni Quaranta David Ben Gurion, tra i fondatori e primo presidente di Israele, un giorno chiamò a raccolta un gruppo di scrittori molto noti e chiese loro quale contributo avrebbero potuto dare alla nascita del futuro Stato.

La letteratura doveva cioè avere un valore «nazionale» e perciò i generi considerati di evasione come la fantascienza, il fantasy o il romanzo poliziesco non potevano trovare molto spazio. Poi, negli ultimi decenni, qualcosa è cambiato. Sono emersi giallisti israeliani di talento, su tutti Batya Gur – scomparsa qualche anno fa e tradotta anche nel nostro paese, n.d.a. -, ma il cuore della letteratura che conta, e che si vende di più in Israele, è ancora legato ai temi dell’identità e della nazione.

E la seconda ragione?

Ha a che fare con un quesito: può la società israeliana accettare come proprio eroe un poliziotto, un detective. Infatti, in Israele è molto chiaro chi possa essere considerato come un eroe: il soldato, l’ex combattente, l’uomo cresciuto in un kibbutz, magari l’agente del Mossad. Con le forze dell’ordine le cose sono più complesse e questo a causa della composizione sociale del nostro paese. Si deve infatti sapere che la stragrande maggioranza degli agenti dei diversi corpi di polizia dello Stato ebraico sono mizrahim, vale a dire che appartengono alle famiglie ebree originarie dei paesi arabi che rappresentano tradizionalmente i ceti popolari. Ebbene, personalmente non sono così certo che tutta la società israeliana sia pronta o disposta ad identificarsi e a considerare come proprio eroe – facendone una sorta di Montalbano o di Maigret israeliani – uno «sbirro» che abbia proprio quell’origine. C’è un film degli anni Settanta che è ancora molto noto in Israele – HaShoter Azoulay («Il poliziotto Azoulay») – e che per molti versi continua a rappresentare il volto della polizia che va per la maggiore nel paese: il protagonista è un agente goffo, un po’ patetico, in ogni caso un personaggio comico e, ovviamente, di origine orientale. Per lui si può provare simpatia, ma è difficile vederlo come un eroe.

Eppure lei ha scelto proprio di scrivere noir. Si tratta di una sorta di sfida?

Diciamo che si è trattato di una scelta a un tempo complicata e, per me, molto importante. Devo infatti partire da un elemento personale per rispondere a questa domanda. Io stesso provengo da una famiglia mizrahim e quando ho cominciato a scrivere delle indagini di Avraham ho cercato di immaginare un detective in cui potessero identificarsi tutti gli israeliani, al di là della loro origine. Non volevo parlare solo a una parte della società, recuperando i cliché di una comunità, bensì proporre ai lettori una figura cui potessero guardare con attenzione e affetto anche gli israeliani di domani. Inoltre, ho cercato di far emergere nel mio lavoro le tracce delle due filiere narrative a cui tengo di più: la tradizione delle letteratura ebraica e quella del noir internazionale, soprattutto di matrice europea. Storicamente questi due elementi si sono incontrati di rado, per non dire quasi mai. Perciò, il farli in qualche modo incontrare, è stata la mia prima sfida.

L’ispettore Avraham non potrebbe essere poi più lontano dallo stereotipo dell’agente del Mossad: tutt’altro che macho, timido, quasi un anti-eroe. Questa è la sua seconda sfida?

In realtà proprio questo tipo di personaggio, sradicato, incompreso si incontra spesso nella letteratura ebraica delle origini, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. E, allo stesso modo, sono figure che ritornano anche tra i protagonisti delle nuove generazioni del noir europeo, quelle che hanno rotto con la tradizione di Agatha Christie: penso a Kurt Wallander o a Martin Beck. Quindi, per il protagonista dei miei romanzi non avrei mai potuto pensare a una sorta di «supereroe», ma a un uomo con tutte le sue debolezze e fragilità destinato a crescere storia dopo storia, ciò che accadrà al mio Avi.

I suoi romanzi non sono ambientati né in mezzo alla movida di Tel Aviv né tra i luoghi della Storia e della fede di Gerusalemme. Sono invece immersi in quella sorta di gigantesca periferia urbana che si sviluppa lungo la costa del paese. Anche in questo caso siamo lontani dal volto consueto di Israele….

Sì, anche se siamo nel «territorio» che mi è proprio, tra i palazzoni popolari di Holon, la zona dove sono nato e cresciuto. Ho vissuto a lungo anche a Gerusalemme e a Tel Aviv, ma ancora oggi in queste città mi sento un po’ spaesato, quasi mi trovassi all’estero, mentre invece quando torno a Holon ho la sensazione di trovarmi nel luogo che più corrisponde a ciò che Israele è oggi. A pensarci bene ero certo che avrei scritto di queste periferie, stipate di persone che lavorano duro ogni giorno, prima ancora di aver deciso cosa avrei scritto. Anche perché di questi luoghi c’è ancora poca traccia nelle pagine della letteratura israeliana e questo malgrado sono convinto che sia da qui che si possa immaginare meglio il futuro del paese cui va stretta sia l’immagine iper-religiosa di Gerusalemme che quella iper-moderna di Tel Aviv: la vera Israele è qualcosa che si situa a metà strada tra questi estremi.

Sia in “Un caso di scomparsa” che in “The possibility of violence”, il suo secondo romanzo ancora inedito in Italia, è in famiglia che si sviluppano tragedie e violenze. Perché questa scelta?

In effetti in entrambi i casi la vera scena del crimine è la famiglia. Perché? Intanto perché la famiglia è sempre il primo posto in cui si incontra la violenza. Personalmente posso dire che anche a me, nella mia esperienza di vita, è capitato, con le dovute proporzioni, di volta in volta, di essere «il criminale», «la vittima» o «il detective».
Del resto, anche se ripensiamo all’origine della cultura ebraica, nella Bibbia il primo assassinio è in famiglia, tra Caino e Abele, mentre il primo tentativo di omicidio è quello di Abramo nei confronto di suo figlio Isacco. Ma c’è anche dell’altro. Nella società israeliana sembra esserci poco spazio per il racconto e la denuncia della violenza che nasce in famiglia: inorridiamo per assassinii che hanno motivazioni politiche o che sono legati al conflitto con i palestinesi, ma non parliamo quasi mai delle mogli uccise dai mariti o della violenza che si sprigiona tra le mura domestiche. Eppure nel nostro paese la maggior parte dei crimini che vengono commessi ogni giorno sono proprio di questo tipo. Quindi, con i miei romanzi, cerco di puntare i riflettori su questa violenza sommersa, nascosta che sembra non si voglia nemmeno prendere in considerazione.