Foto poco note di un giovanissimo Steve Jobs con baffetti alla David Niven, oppure scatti che lo ritraggono con John Sculley e Steve Wozniak mentre presentano un computer (Lisa), un simbolo della cosiddetta «rivoluzione del silicio» anche se non ha avuto il successo stratosferico del successivo MacIntosh. Ci sono anche le immagini delle scarpe, jeans e maglioncino nero, cioè la tuta d’ordinanza di Jobs. Questa biografia illustrata di Jobs firmta da Kevin Lynch per Mondadori Electa (pp. 265, euro 24,90) presenta alcune chicche – foto inedite – nonché grafici e finestre che aiutano a comporre un album di facile consultazione sul fondatore della Apple. Non ci sono informazioni sconvolgenti rispetto altri libri – apologie, cortesemente o aspramente critici – dedicati a un’icona di un futuro ormai diventato passato. L’autore fa sua l’ermeneutica di Jobs come imprenditore che ha fatto della Apple l’impresa globale che ha il fatturato e la capitalizzazione più alte del pianeta (anche se ciò è accaduto con Tim Cook).

È INDUBBIO che Jobs abbia compreso prima di altri le potenzialità dei personal computer con grande capacità di calcolo (allora) e facili da usare. Con Wozniak ci stavano lavorando da un bel po’. Uno era un laureando, l’altro un ingegnere capace di assemblare ottime macchine elettroniche con una manciata di centesimi. Entrambi respiravano a pieni polmoni lo spirito del tempo della San Francisco Bay e dei laboratori di informatica di alcune università. Volevano costruire l’elaboratore per il popolo e che il popolo potesse usare facilmente, magari con altrettanta semplicità programmare.

Ci riuscirono, sfornando alcuni computer (Apple II, Lisa, Mac), dal design elegante, intuitivi nell’uso, dal costo relativamente accessibile a un mercato di massa, che hanno avuto lo stesso ruolo dell’automobile Ford modello T nel prospettare un mutamento antropologico nella società di massa. Ma se per Wozniak l’obiettivo era quello della controcultura hacker – aprire la scatola nera della tecnologia in maniera tale che tutti potessero conoscerla -, per Steve Jobs significava mettere in piedi una impresa che avrebbe cambiato la storia del capitalismo made in Usa.

Rampante imprenditore o innovatore: questa la polarità dove viene rinchiuso Steve Jobs. Per capire il personaggio servirebbe tuttavia riprendere le pagine dedicate al ruolo dell’imprenditore scritte tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento da Joseph Shumpeter. Innovatore è colui che non inventa niente di nuovo, ma che riesce a combinare in maniera inedita, prodotti, conoscenze già esistenti ma tutte operanti in ambiti fino ad allora separati. Bene, Steve Jobs da questo punto di vista è stato un innovatore. I computer che ha progettato, così come le società che ha fondato (oltre Apple, Next e la Pixar) sono stati apripista nei rispettivi settori. Inoltre il suo pallino per la qualità delle macchine informatiche che ha progettato hanno fatto entrare la Apple nell’Olimpo dell’high-tech.

In questa patinata biografia, poca traccia c’è dei suoi madornali errori di prospettiva, come quello di considerare la Rete solo un passatempo per nerd foruncolosi. Non credeva neppure alla condivisione del sapere e alla sua socializzazione, alla base del contemporaneo capitalismo delle piattaforme. In vita è stato infatti un cultore del segreto industriale e della proprietà intellettuale, nonché nemico giurato sia del free software che del capitalistico open source.

ERA SÌ VEGANO, seguace della filosofia orientale, considerata una sorta di manuale e guida del buon imprenditore, ma anche uno strenuo difensore delle gerarchie fondate sull’autorità indiscussa e indiscutibile di chi era i vertici della piramide aziendale. Si era scontrato, uscendone sconfitto, con Bill Gates, ma solo perché entrambi volevano essere i boss dell’high-tech e due galli in un pollaio non possono starci, come recitano i saggi.

La biografia illustrata di Kevin Lynch racconta in maniera educata la cacciata di Jobs dalla Apple e dalla Pixar. Ma parla anche del suo trionfale ritorno in Apple, quando la mela morsicata stava lentamente avvizzendo.

L’idea di Jobs di dispositivi user friendly trovano nuova linfa negli iPod, negli iPhone, negli iPad, nell’iTunes, prodotti che hanno reso di nuovo potente la Apple, una delle top five della Rete, dove però la mela morsicata conta poco rispetto ad altre imprese. Ha avuto la felice idea degli Apple Store, il non luogo che funziona tuttavia da collante per una community di consumatori che venera ogni gadget della società di Cupertino. In maniera politicamente corretta l’autore cita anche Tim Cook, ritenendolo il migliore conductor della Apple dopo la morte di Steve Jobs, che poco prima che il tumore al pancreas lo stroncasse aveva tenuto un discorso per giovani laureati dove ha proferito la frase stracitata che riassume il suo spirito del capitalismo digitale: stay hungry, stay foolish. Sii affamato (cioè non sottomerti a nessuno stato di necessità, rompendo sempre gli schemi), sii folle: solo così puoi diventare potente. Magari in maniera cinica e indifferente a quello spirito compassionevole che tante volte si sente ripetere da altri capitalisti di ventura. Si può usare ogni mezzo necessario per lasciare la propria impronta nel mondo, compreso il far lavorare uomini e donne in condizioni semischiaviste, senza limite di tempo, cedendo così ogni goccia di intelligenza al digital baron di turno.