Nel febbraio del ’68 faceva freddo a Berlino. L’aula magna del Politecnico era al completo, un pubblico di giovani riempiva anche i corridoi. Dietro il podio, era appeso un enorme striscione con la bandiera dei Vietcong e la scritta: «Per la vittoria della rivoluzione vietnamita. Il dovere di un rivoluzionario è fare la Rivoluzione!». Uno dei partecipanti a questo congresso sul Vietnam era lo studente di cinematografia Holger Meins. Sedeva davanti, quasi di fronte a me. Quando un uomo elegante, con occhiali e baffi, si avvicinò al microfono, si fece silenzio in sala e Rudi Dutschke lo presentò: «Ci parla il compagno Giangiacomo Feltrinelli», il ricco editore italiano che aveva girato il mondo, conoscendo di persona molti dei leader rivoluzionari dell’epoca, che era di casa da Fidel Castro, che diffuse in tutto il mondo il diario di Che Guevara, era lì che ci parlava di «Guerriglia politica contro il potere», «Teoria dei focolai nelle metropoli» e proclamava, tra gli applausi, che «In principio era l’azione».

Quello che i partecipanti al congresso non sapevano, è che Feltrinelli aveva tra i suoi bagagli alcuni candelotti di dinamite portati in regalo ai rivoluzionari berlinesi, con i quali aveva intenzione di far saltare in aria una nave ad Amburgo destinata a rifornire la guerra in Vietnam. Questo portò un certo imbarazzo tra i compagni berlinesi che occultarono il materiale esplosivo in una carrozzina che fu poi portata in un posto sicuro. Nonostante l’inverno gelido, il fuoco rivoluzionario ardeva nei cuori dei giovani berlinesi e Feltrinelli ci aveva dato una bella soffiata sopra.

Una settimana prima del congresso sul Vietnam venne istituito nella stessa sala il«Tribunale Springer». La casa editrice Springer possedeva il monopolio della stampa di Berlino Ovest. «Gli Usa difendono in Vietnam la nostra libertà», faceva quotidianamente sapere ai propri lettori e i teppisti che scendevano in strada a protestare contro quella guerra erano comunisti. «Espropriare Springer» proponeva la Sinistra unitariamente.

Di fronte al «Tribunale» riunito, Meins mostrò, senza preavviso, un film muto da lui realizzato «Come si fabbrica una molotov, istruzioni per l’uso». Come immagine in chiusura, l’esterrefatto pubblico vide una panoramica del noto edificio dove ha sede la Springer; quella stessa notte furono distrutte le vetrine di 13 filiali del gruppo. I giornali, con il loro abituale cattivo gusto e proverbiale ignoranza politica, paragonarono queste azioni alla «notte dei cristalli», quando il 9 novembre 1938 i nazisti infransero sistematicamente le vetrine dei negozianti ebrei.

9 novembre: il giorno del destino… Al parlamento viene posta la domanda: «Chi ha finanziato questo film di propaganda militante?» Meins si spaventa e fa sparire i negativi.

Tre giorni prima di Pasqua, l’11 aprile 1968, era un giorno primaverile e Rudi Dutschke era appena uscito da una farmacia dove aveva comprato qualcosa per il raffreddore del figlio, quando un giovane si avvicinò e gli chiese chi fosse. Appena avuta la conferma, il giovane estremista di destra estrasse una pistola dalla tasca e sparò alla testa del popolare leader studentesco. Mi trovavo per caso in zona e corsi alla più vicina cabina telefonica per chiamare Holger Meins: «Devi venire subito con una cinepresa», ansimai ancora sotto choc nella cornetta. «Non serve nessuna cinepresa – rispose gelido – ora dobbiamo far parlare le armi».

Tre giorni dopo, le prime bottiglie molotov volarono contro dei furgoni della Springer, incendiandoli. Non le aveva fornite Meins, bensì un funzionario della Verfassungsschutz per compromettere gli studenti più rivoluzionari. Rudi Dutschke sopravvisse all’attentato, ma non voleva più vivere in Germania, temeva per sé e, soprattutto, per la sua famiglia. In autunno «Rudi il rosso» si recò in Italia su invito di Feltrinelli.

Quando vivevo a Roma, trascorrevo molto tempo nelle librerie di Feltrinelli, che erano allora un punto di riferimento per l’intera sinistra. Gli scaffali colorati, gli autori sconosciuti e l’atmosfera «pop» dei negozi erano qualcosa di nuovo. Nella filiale accanto a Piazza della Repubblica (via Emanuele Orlando) avevano un juke-box che suonava i successi dall’Inghilterra. Questo Feltrinelli animava la cultura giovanile italiana e, allo stesso tempo, lavorava con vecchi e nuovi partigiani alla creazione di illegali apparati di guerriglia. Grazie alle mie conoscenze italiane, un piccolo gruppo di studenti della Dffb (tra i quali Holger Meins) venne invitato al Festival di Pesaro.

All’epoca in Italia andavamo sempre in auto e, superato il Passo del Brennero, sentivamo l’aria più calda, odori sconosciuti; poi si beveva il primo caffè espresso, facevamo il pieno alla Agip, la marca col cane a sei zampe che sputa fuoco, e mi sentivo come a casa, felice di far conoscere a Holger questo paese da cui proveniva quel Feltrinelli che lo aveva tanto colpito con i suoi discorsi.

Holger Meins discuteva volentieri e a lungo, pazientemente. Prima o poi si arrivava al punto in cui diceva: «E ora che si fa? Qual è la conclusione dei nostri discorsi?» Da buon marxista, non voleva interpretare il mondo, bensì cambiarlo; era un «essere visivo», che osservava e studiava meticolosamente sia le persone che gli oggetti. Quando qualcosa si guastava lo osservava finché non trovava il guasto. Più tardi, nella Raf, si sarebbe occupato di accomodare armi e di fabbricare bombe. (..).

Da Pesaro andammo poi a Venezia, alla Biennale, dove vi furono vivaci proteste contro l’arte borghese. Abitavamo dal compositore Luigi Nono e la moglie Nuria Schönberg. Quando dimostrammo in migliaia in piazza S. Marco fummo caricati dalla polizia e cercammo rifugio tra i vicoli. Al ritorno in Germania, le nostre vie si separarono. Meins se ne andò a Torino, dagli operai Fiat in sciopero, dove conobbe un clima di lotta politica a lui ignoto, lo stesso di cui aveva parlato Feltrinelli a Berlino. Venne a contatto con esponenti di Potere Operaio e visse i primi albori delle Brigate Rosse.

Quattro anni dopo, il primo luglio 1972, durante il notiziario serale, il pubblico televisivo poté godersi le immagini di una spettacolare azione di polizia. Era il giorno del Corpus Domini, un giorno importante per i cattolici tedeschi. Ore 6 del mattino: una Porsche targata 911 entra nel cortile di un condominio di Francoforte. Tre uomini scendono dall’auto sportiva e, non appena spariscono dietro la porta di un garage, in tutto il cortile si diffonde una voce da un altoparlante: «Qui è la polizia. Siete circondati. Uscite fuori uno alla volta e non vi succederà niente. Pensate alla vostra vita. Siete giovani. Non avete scampo!». Sessanta poliziotti armati e con veicoli blindati hanno circondato la zona: è cominciata l’Operazione Gustav. I ricercati sono in trappola, si tratta del nemico pubblico n° 1, il fondatore della Raf Andreas Baader, assieme a Holger Meins e Jan-Carl Raspe.

Esce per primo Holger Meins: si è spogliato come ordinato dalla polizia e ha addosso solo uno slip, calzini e scarpe. Per alcuni secondi quest’uomo alto e magro resta seminudo, a mani alzate, davanti al garage, poi i poliziotti gli saltano addosso, viene trascinato via, le braccia tirate dietro la schiena, le gambe che quasi non toccano terra. I media presenti documenteranno il volto deformato dal dolore e il suo grido disperato.

I politici, la polizia e la stampa esultano: «Li abbiamo presi!»,«La Banda Baader-Meinhof è finita!» L’immagine dell’uomo alto e magro in mutande farà il giro del mondo e diventerà una delle icone dell’epoca. Due anni e mezzo dopo, nel novembre 1974, i media diffonderanno un’altra immagine di Holger Meins. Morto. In camicia bianca con i polsini, su cuscini bianchi coi merletti, giace un vecchio con una barba lunghissima, gli occhi infossati, le mani posate una sull’altra, preparato per il riposo eterno.

Holger Meins morì il 9 novembre, data fatidica per la Germania.(…) Cinque anni dopo, andai ad Amburgo a visitare suo padre con una videocamera Portapak. Con me c’era il cineasta Alberto Grifi. Ci eravamo conosciuti ai tempi in cui ero a Roma e giravamo i nostri primi film sperimentali: Non stop grammatica lo aveva realizzato nella libreria Feltrinelli. Per il film Anna inventò il «Vidigrafen» per copiare su video il materiale cinematografico. Come documentarista, aveva lavorato a Parco Lambro, la Woodstock italiana proletaria che si è tenuta a Milano nel 1976. Anche se non sapeva il tedesco, rimase molto colpito dal padre di Holger. Quelle riprese formarono la base del mio film Starbuck-Holger Meins che venne mostrato anche in Italia e che ora uscirà di nuovo, con sottotitoli in italiano.