Com’è difficile stabilire i confini di un genere musicale. Se poi questa corrente musicale si è autonominata, grazie anche al nostro Claudio Rocchi, musica progressiva, allora diventa praticamente impossibile non accettare con serenità di trovarci di fronte a confini sfumati. Musica progressiva dunque, naturalmente in evoluzione, formalmente inquieta, nata da istanze giovanili precise, dal desiderio di dare dignità artistica alla musica pop: una forma artistica vista sempre come disciplina minore, adatta per il ballo, per lo svago.

Già nella prima metà degli anni Sessanta, con il folk revival e la prima ondata pischedelica che prendono piede negli Stati Uniti, la musica giovanile ha coniugato la funzione primaria del rock’n’roll, far ballare (e sballare), con quella di soddisfare la mente (e il termine pischedelia è un manifesto programmatico in tal senso). I testi riflettono le nuove istanze sociali che contestazione giovanile e studentesca stanno facendo emergere in relazione ai grandi mutamenti della società americana, ferita anche dall’impegno militare in Vietnam. In Europa si è nel frattempo sviluppato un importante fenomeno psichedelico.

Epicentro è ancora una volta la Gran Bretagna, sulla scia del grande successo del beat e del blues revival è una scena psichedelica altrettanto colorata e altrettanto «chimica» ma diversa nella tematica letteraria e in fondo anche nella struttura musicale. Se negli Stati Uniti sono imperanti le lunghe cavalcate permeate di rock blues e acido che caratterizzano gli show dei Grateful Dead. Quicksilver e compagnia, in Gran Bretagna è ancora la forma canzone, forse solo un po’ dilatata, a costituire il repertorio tipo dei paladini del genere come Pink Floyd e Tomorrow.

Il 1967 è l’anno del capolavoro dei Beatles, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, e sono già chiari alcuni segnali di un tentativo di elevare ad Arte un grande album pop. Sin dalla lussuosa copertina, inedita per ricercatezza e tematica, ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso, e che i quattro musicisti di Liverpool stessero evolvendo la propria proposta musicale si era già visto nei due precedenti lavori: Rubber Soul e Revolver. Qui però il salto è grandioso. Per la prima volta il termine (oggi abusato) di multimedialità si può applicare a un 33 giri.

I Beatles non sono soli in questa «guerra di frontiera» e non è solo sul piano concettuale che si stanno aprendo grandi orizzonti: i Nice di Keith Emerson, non a caso uno degli eroi più osannati e criticati del periodo d’oro del rock progressivo, esplorano strani connubi tra beat e pagine classiche del passato anche recente. I Procol Harum con A Whiter Shade of Pale spopolano nelle classifiche mondiali, coniugando pop e Bach. Non è ancora puro progressive ma ci stiamo velocemente avvicinando, complici anche le maggiori capacità tecniche di una nuova e preparata generazione di musicisti.

Tra questi Robert Fripp che, dopo un poco ispirato tentativo in trio con i fratelli Giles, forma i King Crimson di cui diventa ben presto leader e tiranno. Ma proprio il primo album del complesso, in cui il talento degli altri musicisti (Greg Lake e Ian McDonald in testa) riesce a bilanciare l’esuberanza dispotica di Fripp. Risulta un capolavoro assoluto, un vero album capostipite. È una delle cose su cui tutti gli storici e critici sono d’accordo: In the Court of the Crimson King è il disco che inaugura la stagione del progressive inglese (e di conseguenza europeo); ma è anche il disco simbolo del genere, nella sua accezione più varia.

Verranno altri dischi fondamentali: quelli dei primi Genesis, degli Yes, dei protagonisti di Canterbury ma pochi rappresentano il genere progressive come l’esordio dei King Crimson. Il rock progressivo inglese, di volta in volta denominato rock sinfonico, rock barocco e in cento altri modi, domina certa scena musicale per un periodo piuttosto lungo, sulle ali dei successi discografici di gruppi come Genesis, Pink Floyd, King Crimson e Yes.

E anche grazie a opere di culto straordinario come gli album di High Tide, Pink Faires e Cressida, solo per citarne alcuni. Se la Gran Bretagna è la nazione principe della musica progressive, la Germania è la nazione dove si sviluppa una corrente originale, votata in parte all’elettronica e capace di alcune prove discografiche di grande fascino Poi, nella seconda metà dei Settanta, il declino lento, inesorabile, fino al colpo di grazia della rivoluzione punk. Rimane una discografia imponente, un catalogo enorme di dischi di grande successo e di opere minori ma di culto straordinario.

Un’epoca irripetibile di freddo tecnicismo, di eccessi verbosi e affascinanti allo stesso tempo, di opere insostituibili e di prolissità inimmaginabili, copertine evocative assieme a poesie messe in musica, di concerti diventati veri e propri momenti di spettacolo multilivello puro. Tutto spazzato via dal pragmatismo punk, tutto indelebilmente impresso nella memoria di chi ha vissuto quella stagione.

E in Italia? In Italia c’è una variopinta scena beat e una breve stagione psichedelica. Psichedelia di provincia, mutuata dalle eccentricità dei Beatles e dalle cronache che giungono da Londra, ma capace di episodi sinceri come quelli che vedono protagonisti Le Stelle di Mario Schifano o Chetro e Co. Ma anche di perle eccelse di pop psichedelico autarchico come 29 settembre e Nel cuore, nell’anima dell’Equipe 84.

Assistiamo quindi a episodi isolati in cui complessi, anche affermati o in via di affermazione, riescono nel miracoloso compito di traghettare la provinciale musica italiana verso lidi più maturi, verso una musica più colta e meno fisica, più cerebrale e meno istintiva. Nell’autunno del 1968 escono due album che, pur se diversi fra loro, manifestano il desiderio di cambiamento: Stereoequipe dell’Equipe 84 e Senza orario, senza bandiera dei New Trolls.

Entrambi i gruppi sono affermati, più i primi dei secondi, ma mentre Stereoequipe è una furba operazione della Ricordi che ricicla vecchio materiale in uno dei primi album stereofonici della discografia, l’album dei New Trolls è invece di fondamentale importanza. In Senza orario, senza bandiera, infatti, ci sono i primi elementi di quella contaminazione che porterà allo sviluppo del pop italiano dei primi Settanta. Si tratta di un concept album, dominato dal pensiero anarchico del poeta Riccardo Mannerini che con Fabrizio De André è l’autore dei testi.

La sua influenza su ciò che è venuto dopo non è mai stata sottovalutata. Ma non è solo la tematica a essere «nuova» in questo disco, c’è anche il grande lavoro di Gian Piero Reverberi che con i suoi arrangiamenti contribuisce alla creazione di un ipotetico ponte tra le ingenue scopiazzature del beat italiano e le complesse partiture degli anni seguenti.

Poi ci sono i Pooh, altro gruppo che si sta affermando sempre più come una realtà della nuova scena musicale, che ha già all’attivo un album interessante (Per quelli come noi) e diversi singoli di discreto successo. Soprattutto i Pooh sembrano voler spostare il loro baricentro musicale verso qualcosa di più complesso. In realtà la direzione presa sarà quella che porta alle parti alte delle classifiche di vendita, con brani privi di qualsiasi pretesa avanguardistica come Piccola Katy.

Però, nel periodo di transizione che porterà i Pooh a lasciare, con molta acredine, la Vedette, etichetta che li ha lanciati sul mercato discografico, nasce un secondo album che rimarrà un episodio isolato nella loro produzione, Contrasto. È un album mai interamente riconosciuto dal conplesso che, anzi, ne chiederà il ritiro subito dopo la pubblicazione. Viene assemblato dai discografici Vedette senza la collaborazione dei musicisti e distribuito in un numero di copie veramente esiguo. Non contiene elementi stilisticamente progressivi, assolutamente, però ha quell’alone di mistero e quella introvabilità che è propria di molte opere del successivo periodo progressive.

Ma non ci sono solo i reduci del beat a spingere la musica italiana verso nuovi lidi. Nel 1969 vengono pubblicati alcuni dischi coraggiosi e visionari, rimasti completamente sconosciuti o diventati oggetti di culto straordinario. Ci riferiamo al bellissimo happening di Guido Bolzoni, cantautore che ritroveremo anni dopo con il complesso dei Numi, e agli lp d’esordio di Orme (Ad gloriam) e Stormy Six (Le idee di oggi per la musica di domani). Le Orme saranno i primi e più convinti sostenitori del pop di derivazione anglosassone e nel 1971 proporranno quello che molti considerano il primo album di vero pop italiano: Collage. Gli Stormy Six del primo album sono, invece, profondamente diversi da quelli dell’lp L’unità, del 1972, e da quelli impegnati ed eclettici del periodo «tedesco» e di album come L’apprendista e Un biglietto del tram. Sono schierati a quartetto e c’è anche Claudio Rocchi nell’insolita veste di bassista, il cantautore però caratterizza l’album anche con le sue composizioni visionarie.

Ci sono altri esordi eccellenti nel 1969: la Formula 3 ad esempio che a settembre spopola con Questo folle sentimento, primo singolo di una cariera fortunata. Anche Il Balletto di Bronzo pubblica il suo primo disco in quel tramonto di decennio, si tratta di un 45 giri con Neve calda e Cominciò per gioco. Tornando alla Formula 3, il complesso incide perla neonata etichetta Numero Uno e tra i primi dischi pubblicati, oltre a quello di Radius e soci, ci sono quelli degli Alpha Centauri, della Verde Stagione, dell’Anonima Sound di Ivan Graziani e dei Computers, tutti dischi di transizione verso il «suono nuovo» che ormai è alle porte.

E poi ci sono i singoli dei New Trolls, di cui abbiamo già detto, e per rimanere a Genova c’è l’esordio dei J. Plep con La scala/L’anima del mondo. Poco dopo il complesso si ripresenterà con una nuova denominazione: Nuova Idea. Molti altri artisti che ritroveremo nel 1970 hanno pubblicato dischi anche nel 1969 come Le Macchie Rosse, i Myosotis, Gigi Pascal, i Flashmen, i G. Men e i Salis’n’Salis. I Giganti, oltre a proporre un singolo con un’interessante cover di Summertime, pubblicano anche un lp in cui lasciano intravedere il desiderio di cambiamento che li condurrà, tempo dopo, a realizzare un concept tra i più interessanti mai fatti in Italia.

Anche gli Alusa Fallax, protagonisti nel 1974 di un bellissimo album, esordiscono nel 1969 con due singoli per la piccola etichetta West Side. A portare un po’ di rock in Italia contribuiscono anche gli «inglesi» Sopworth Camel (poi semplicemente Camel) che propongono una bella versione di Fresh Garbage degli Spirit. Anche due solisti atipici come Jonathan (metà del duo Jonathan L Michelle) e Gian Pieretti tentano la strada dell’album per proporsi o riproporsi in nuova veste. Il primo con l’lp omonimo e il secondo con l’originale Il viaggio celeste di Gian Pieretti.

Arrivano al traguardo dell’album anche due gruppi storici del beat italiano, i Ribelli (nel 1968) e i Quelli (nel 1969). Non sono dischi straordinariamente innovativi ma mentano di essere segnalati perché contengono le prime prove rock di gente del calibro di Demetrio Stratos, Gianni Dall’Aglio, Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Alberto Radius, Flavio Premoli e Giorgio Piazza; tutti protagonisti dell’epoca d’oro del pop italiano. Prodromi di pop anche nell’album dei napoletani Showmen con due cavalli di razza come James Senese (poi Napoli Centrale) e Elio D’Anna (poi Osanna, Uno e Nova).

Infine ci sono due artisti importanti, anzi fondamentali: Fabrizio De André e Lucio Battisti. Entrambi si stanno definitivamente affermando e mentre il primo pubblica uno dei suoi capolavori, l’innovativo Tutti morimmo a stento, con gli straordinari arrangiamenti di Gian Piero Reverberi (coautore delle musiche assieme al cantautore genovese), Battisti prende le misure al pop italiano con composizioni sempre più ricche come Mi ritorni in mente e 7 e 40. In due anni, 1968 e 1969, la scena italiana muta pelle, diventa più consapevole dei propri mezzi.

La strada è lunga, ci vorranno ancora due o tre anni affinché le grandi opere del pop italiano vedano la luce, ma i semi sono stati gettati. Una nuova generazione di musicisti sempre più preparati si sta affacciando e anche molti giovani discografici e promoter sono pronti a dare le giuste occasioni a un numero consistente di solisti e complessi. (…) Individuare un disco che racchiuda in sé i prodromi di un fenomeno che così tanti consensi (anche e soprattutto postumi) raccoglie è impresa sicuramente ardua.

Abbiamo deciso di partire dal 1970 perché è in questa alba di decennio che compaiono sul mercato i primi lavori che in qualche modo riconducono a un concetto di musica progressiva. Le Orme, i New Trolls, Il Balletto Di Bronzo e la Formula 3 sono tra i primi gruppi (poco prima li avremmo chiamati complessi) a proporre al pubblico opere un po’ diverse: rock ma non solo. Dopo una hit come Questo folle sentimento, ecco allora una cupa rielaborazione del Dies irae di biblica memoria ad opera della Formula 3, accanto a un pezzo proverbialmente pop come Neve calda, Il Balletto Di Bronzo ci propone una ricca suite a tema fantascientifico (Missione Sirio 2222) e così via.

Ma se è arduo individuare i confini del genere progressivo inglese, è praticamente impossibile delimitare l’omologa corrente italiana. Già il nome sembra essere una forzatura: la storica rivista Ciao 2001 lo aveva battezzato, in tempi non sospetti, pop italiano ma oggi noi siamo orfani di questa denominazione, ora che il termine pop ci fa venire in mente Laura Pausini e Tiziano Ferro piuttosto che gli Abiogenesi o i Timoria.

E così siamo tornati a utilizzare il termine, squisitamente inglese, di rock progressivo per nominare questo immenso calderone in cui la storiografia musicale italiana ha inserito improbabili accostamenti. E noi abbiamo deciso di sposare questa teoria della contaminazione più estrema, che immagina il genere come qualcosa di radiale che partendo da un nucleo, abitato da fedeli proseliti come PFM, Banco, Orme, Metamorfosi eccetera, va a toccare via via anelli esterni in cui contaminare opere di artisti lontani anni luce dal verbo progressivo.

Quindi ben vengano le avanguardie musicali di Franco Battiato o dei Dedalus o ancora dei Nadma, ma le pagine più rock, e senz’altro importanti per la musica italiana, di artisti come Battisti o De André, così come le incursioni progressive di complessi «leggeri» – come Pooh e Bottega dell’Arte non le abbiamo volute escludere (….).

*Un estratto dall’introduzione a «Volo Magico-Storia illustrata del rock progressive italiano» (Arcana, pp. 600, euro 75), rilevante testo di Franco Brizi dedicato a un genere magmatico, frammentario e per questo tanto più interessante. Un’enciclopedia indispensabile, con recensioni anno per anno (1970-1977) e un apparato icononografico avvincente. Imperdibile. Si ringrazia la casa editrice e l’autore dal cui archivio personale proviene il materiale riprodotto in queste pagine.