Un meditativo road movie, padre e figlio per le strade sconquassate di Nazareth, nel cuore del traffico, tra cumuli di immondizia abbandonati e la tensione latente di una violenza urbana sempre pronta a rivelarsi: il loro obiettivo, tra passato e presente, tra il richiamo pressante delle tradizioni e la luce diurna di un futuro difficile anche solo da immaginare, consegnare di presenza, come secondo costume locale, gli inviti al matrimonio della sorella dell’uno e figlia dell’altro. Ha una ossatura classica Wajib, l’ultimo lavoro di Annemarie Jacir, cineasta palestinese la cui filmografia, nonché la presenza al festival, è omaggiata con una selezione monografica di opere dal Middle East Now di Firenze, la rassegna guidata da Lisa Chiari e Roberto Ruta, quest’anno fino al 15 aprile, alla sua nona edizione.

Il figlio ha lasciato da molti anni la terra d’origine per l’Italia dove lavora come designer, il padre, un anziano professore che aspira a diventare preside, invece non si è mai mosso da quei luoghi: su questa polarità, su questo dialogare dell’alterità dei due sguardi, Jacir distilla con lentezza e pazienza la sua tela, una partitura che potrebbe prendere, nelle prime sequenze delle iniziali visite ai parenti, la via della commedia e che invece poi sceglie il tracciato del dramma soffuso, a rilascio graduale di note più dolorose e toccanti.

I due uomini non si riconoscono più, incastrati come sono in vecchie visioni l’uno dell’altro. Li avviluppa una rete fatta di “dovere” che è il titolo del film, di convenzioni sociali che il padre ha sempre ossequiato e in cui Shadi si sente stritolare senza riuscire a sottrarvisi. (Siamo nella comunità cristiana di Nazareth, la stessa in cui è nata nel 1974 la regista). Su questo terreno si dipana un film di attori: Mohammad Bakri e Saleh Bakri – padre e figlio anche nella vita – di volti e di sfumature, di conflitto generazionale reso più esasperato dalle note di sofferenza del contesto coi suoi vischiosi bug atavici (uno dei momenti più duri dello scontro si ha quando Shadi accusa il padre di subalternità nei confronti di un censore filo israeliano), nonché dal dolore all’ombra dell’abbandono che entrambi hanno conosciuto a causa della madre che li ha lasciati per un altro uomo…

Sempre alla sua terra e al senso di una impossibilità che è negazione al diritto a una vita che sia minimamente degna di essere tale, guarda a ritroso When I Saw You (2012) che ci riporta al 1967 e alla guerra dei Sei giorni, a un campo di rifugiati palestinesi in Giordania. Qui il nostro sguardo guida è quello di Tarek un ragazzino di 11 anni, l’ultimo a vedere il padre ora disperso nel caos del conflitto, l’ultimo a legarsi al contatto con la sua casa: è lui che adesso chiede insistentemente indietro il suo mondo alla madre, l’unica a essergli rimasta nello scenario privo di tutto del campo, tra cibo razionato e orizzonti desertici in senso simbolico e reale. Buttato fuori anche dalla scuola, perché ancora non è in grado di leggere, anche se sa fare di conto brillantemente, Tarek prende a vagare solo nei dintorni del campo, in compagnia soltanto di un bastoncino di legno, l’ombra come indicazione dell’origine del sole e dunque di una direzione di ritorno del padre, secondo quanto dettogli dalla madre. In questa solitudine, anche nell’immagine, in questa disperazione, in questa arsura di contatti e di una vita che nutra la sua giovanissima età non stupisce che il ragazzino trovi ricetto e prenda ad affezionarsi a un gruppo di guerriglieri accampato nei dintorni.

Raggiunto dalla madre, Tarek si ritrova così in una sorta di famiglia allargata in cui finalmente si sente accolto e protetto, e anche se per emulazione il suo desiderio inevitabile è di diventare un bambino soldato, di fatto dal gruppo viene trattato con tutti i riguardi. Pure in questo momentaneo sollievo, il contesto impedisce vie di fuga liberatorie e avvolge i personaggi in una indefinita non risolvibile precarietà.

Al desiderio e allo strazio di un quasi impossibile ritorno nella terra della diaspora guarda l’ultima opera di Jacir presente in rassegna, che è poi il suo esordio Salt of This Sea del 2009. Desiderio di quei profumi, di quell’aria, della luce del mare e della sua essenza unica salmastra, desiderio della storia dei suoi antenati, desiderio delle arance di Jaffa di cui era solito parlarle suo nonno, desiderio di se stessa e delle proprie radici: tutto questo si legge negli occhi fieri di Soraya (Suheir Hammad), giovane donna nata a New York e giunta in Palestina con un breve visto turistico che vorrebbe trasformare in un ritorno per sempre. Pure, fin dall’incipit del film si trova immersa in una griglia fittissima di ostacoli e impossibilità, di controlli ossessivi relativi alla sua identità, innanzi a una terra vessata e blindata. Le stesse barriere incontra quando vorrebbe riscattare in banca il credito del nonno (dal ‘48 sono stati tutti cancellati), cosa che monta ulteriormente in lei la rabbia per questa assenza di libertà e di dignità. In questo blocco totale d’azione si dispiega l’amore viscerale di Jacir per quei luoghi che accarezza con la macchina da presa per tutto il film, il suo grido di cineasta resistente che spinge Soraya, in compagnia di Emad (Saleh Bakri), un ragazzo conosciuto come cameriere in un locale, anche lui esasperato dal non potere ottenere il visto per espatriare, a compiere rivoluzionarie illegali azioni di rottura, a una fuga in macchina per quelle strade loro interdette, al voler prendersi nonostante tutto quei luoghi. Indimenticabile il colloquio a Jaffa tra Soraya e la donna israeliana che adesso vive in quella che era stata la casa dei suoi nonni: di fronte alla sua disperazione e al suo grido di rivendicazione, riceve solo uno sguardo indifferente e muto, come se la Storia fosse ormai inesistente.

È questo il canto più coinvolgente di Jacir, cineasta delle strutture aperte oltre l’irresolubile, dell’amore sconfinato per la sua terra e la sua gente e delle immersioni nel dolore, a cuore aperto.