L’intervento di Greta all’Onu è stato banalizzato dalla gran parte della classe politica e degli opinionisti. Eppure, il messaggio è stato chiaro e diretto, soprattutto su un punto fondamentale: «Non possiamo continuare a inseguire il mito della crescita infinita».

La categoria dello “sviluppo sostenibile”, che a suo tempo Alex Langer e Wolfgang Sachs criticarono aspramente e che in tempi recenti Latouche ha definito un ossimoro, deve essere abbandonato. Se vogliamo salvare ancora l’ecosistema non possiamo darci come obbiettivo prioritario la crescita economica, anche se tinta di verde, pensando che possa bastare spendere qualche decina di miliardi in più in attività green, lasciando immutato il sistema economico nel suo complesso. I numeri parlano chiaro: negli ultimi vent’anni, il solo in cui la CO2 è diminuita nell’atmosfera è stato il 2009, l’anno più duro della crisi in Occidente quando il Pil è sceso nettamente in tutti i paesi industrializzati.

Allo stesso tempo sappiamo che una forte riduzione di produzione e consumi inquinanti comporta dei sacrifici che nell’attuale modo di produzione capitalistico vengono fatti pagare, nell’ordine, alla classe operaia, impiegatizia e al ceto medio. Non si tratta di abbracciare una linea oltranzista di decrescita a 360 gradi, ma sicuramente di far decrescere i settori più inquinanti, compresa l’agricoltura/zootecnia industriale, e far crescere nuove forme di mercato solidale, di gestione dei beni comuni e sicuramente di investimenti in cultura e ricerca finalizzate alla tutela ambientale. La conversione ecologica senza una redistribuzione di reddito verso i ceti sociali meno abbienti potrebbe portarci verso la catastrofe sociale e politica prima ancora che ecologica.

Teniamo altresì conto che esiste non solo un debito ecologico pesante e insostenibile, ma un altrettanto gravoso debito finanziario. Le nostre società industriali sono fortemente indebitate. Se sommiamo il debito delle famiglie, delle imprese e dello Stato arriviamo negli Usa a 3,5 volte il Pil, ed in Italia a 2,6 volte. Quegli studenti italiani (e sono stati tanti!) che hanno marciato venerdì scorso nella memorabile giornata mondiale per salvare il pianeta, forse non sanno che su ognuno di loro grave un debito pubblico pari a circa 40mila euro con cui dovranno fare i conti.

Pertanto questa generazione che sta aprendo gli occhi sul mondo si trova a dover pagare un debito ecologico e finanziario di cui non ha alcuna responsabilità. E’ come se i nostri giovani e giovanissimi fossero i figli di quei nobili siciliani dell’800 che hanno dilapidato grandi patrimoni, a vantaggio di usurai e mafia nascente (vedi le bellissime pagine del romanzo “I Ieoni di Sicilia” di Stefania Auci).

Dobbiamo immaginare che ci stiamo avviando ad una lunga fase di transizione che comporterà necessariamente dei sacrifici per le nazioni più ricche, per ridurre il loro, determinante, impatto sull’ambiente. Finora il sistema dell’economia mondiale ha funzionato così: gli effetti nefasti dell’inquinamento, dell’effetto serra e della rapina di risorse naturali, provocati dai paesi più industrializzati li stanno pagando i paesi più poveri del mondo. Se vogliamo salvare l’equilibrio dell’ecosistema che ci consente di vivere dobbiamo invertire questa logica.

Occorre sancire un patto intergenerazionale fondato sui principi di equità sociale e territoriale. Cominciando dal nostro paese con proposte concrete che traducano l’allarme lanciato dal movimento “Fridays for future” in un cambiamento radicale della politica economica. E cominciamo noi “Grand Parents for future” a restituire una parte di quello di cui ci siamo appropriati in varia misura. Perché anche se non siamo personalmente colpevoli, abbiamo comunque goduto indirettamente di un benessere materiale frutto di un anticipazione sul futuro di risorse naturali e finanziarie.