L’idea di vaccinare il ricco Nord e lasciare indietro i cittadini del povero Sud, cioè di curare il virus, guardando al portafoglio, avanzata dalla neo assessora alla sanità della Lombardia, Letizia Moratti, arriva giusto nel giorno del voto di fiducia del Parlamento al governo. Offrendo così una ragione in più per preferire una sofferta fiducia a una sonora sconfitta, a una crisi conclamata per poi spianare la strada a un governo con le destre, comunque vestito.

Ora si apre una nuova fase politica. Il governo e il paese camminano sulle sabbie mobili di una crisi che, nata nel Palazzo, ha appena avuto, finalmente in Parlamento, la sua drammatica rappresentazione. Molti cittadini, costretti a casa dalla pandemia, hanno potuto seguire i discorsi dei propri rappresentanti e di un presidente del consiglio che ha colto l’occasione per una puntigliosa, lunga elencazione, nel corso dei quattro interventi di questi due giorni, di quel che il governo sta facendo o ha fatto o dovrà fare.

Ma il governo, pur avendo formalmente ottenuto la fiducia del Parlamento, esce comunque ammaccato dalla crisi. Perché i numeri e i voti contano ma fino a un certo punto, anche se alcuni pesano più di altri. Come pesa quello della senatrice Liliana Segre che ha voluto motivare con una certa enfasi la sua scelta: «Ho preso il treno per venire a Roma perché questo governo su Covid e Europa ha fatto cose gigantesche».

Alle normali e scontate difficoltà del momento si aggiunge ora il procedere a vista, di fronte al Paese e di fronte agli altri governi europei. Si cammina sulle sabbie mobili, oltretutto disseminate di mine perché l’obiettivo grosso della spregiudicata tattica di Renzi non è solo Conte ma questa alleanza tra Pd, M5Stelle e Leu (che però proprio la crisi sembra aver cementato), per logorare il governo e farne un altro finalmente gradito a Confindustria.

Del resto lo ha spiegato bene Zingaretti quando, nei giorni scorsi, proprio rivolgendosi al patriota di Rignano, aveva detto una cosa molto semplice sui governi di coalizione, e con legge elettorale proporzionale: «Si sta insieme se ciascuno rispetta le opinioni degli altri non avendo la pretesa di tenere in considerazione solo la propria». Principio tanto giusto quanto inascoltato dal destinatario che ieri pomeriggio, nel suo intervento contro Conte e i 5Stelle, ha recitato il solito stucchevole copione del «è tutto sbagliato è tutto da rifare», neanche a dirlo sposato dal patriota Larussa, intervenuto subito dopo.

Certamente i governi si fanno in Parlamento, solo deputati e senatori hanno la responsabilità di questa scelta. Ma è altrettanto evidente che la crisi dei partiti, e quella del Paese, non si risolve con un senatore in più e neppure con la camicia di forza di sistemi elettorali maggioritari.

Conte ha condotto questo dibattito in modo dignitoso, richiamando le origini fragili di un’alleanza («sterile sommatoria tra forze politiche») per rimarcare un consolidamento dell’amalgama nel passaggio da quelle origini a una maggiore coesione e identità politica, del resto messa già alla prova delle scelte obbligate sul Recovery e sulla pandemia.

Il voto a maggioranza assoluta della Camera e relativa al Senato, in realtà è dunque sopratutto un sospiro di sollievo. Ma al governo, per rispondere ai grandi bisogni del Paese, non basta una boccata d’ossigeno.