«Noi in questo processo di riforme dobbiamo starci dentro. Quello che chiedo è che Renzi torni a essere quello che era fino a un mese prima delle elezioni, che riprenda a trattare e a discutere con noi». Questa è la linea scelta da Silvio Berlusconi dopo i soliti, immancabili travagli, e non basterà il colpo di mano del premier per fargli cambiare idea. Il cavaliere (non ex come si era pensato, dal momento che nessuno ha avviato il procedimento necessario per decretarne la decadenza) ha dettato la linea martedì sera, a cena con Bergamini, Toti e Gelmini. Ma tutto era già stato chiarito la sera prima, in una riunione del gruppo dei senatori nel quale i mal di pancia si sprecavano, ma a battersi frontalmente contro la riforma del Senato era stato quasi solo Augusto Minzolini.

A sentire le dichiarazioni di fuoco di forzisti o ex forzisti, dopo la rimozione d’imperio dei senatori del Pd dissidenti si crederebbe che l’accordo del Nazareno sia a un passo del tracollo. E’ Malan il primo ad aprire il fuoco, segnalando che sostituire i senatori non all’inizio dei lavori della commissione (cosa legittimissima) ma al momento del voto, vuol dire fare a botte con l’art. 67 della Carta che nega in radice il vincolo di mandato. E’ la vicepresidente del gruppo Anna Maria Bernini a usare paragoni di durezza inusitata: «Renzi fa delle commissioni un bivacco di manipoli». Persino gli ex fratelli dell’Ncd s’indignano. Ma è solo apparenza, o tutt’al più lo sfogo di chi preferirebbe di gran lunga affossare la legge di Renzi ma sa di non poterlo fare.

Certo, gli ufficiali azzurri ripetono che la riforma così com’è non va, ma quali siano i punti inaccettabili resta indefinito. In realtà si tratta di particolari, come il ruolo dei sindaci o il numero dei senatori scelti dal capo dello Stato. Il solo vero punto nodale, la non elezione diretta dei futuri ospiti di palazzo Madama, Berlusconi ha deciso di non rimetterlo in discussione. Per il resto, chiede soprattutto un riconoscimento esplicito e visibile del suo ruolo come artefice della storica riforma: per questo ha bisogno che nel prossimo incontro con Renzi, previsto per lunedì o martedì, il ragazzaccio accetti qualche non sostanziale correzione. Una volta restaurato il quadretto nel quale il condannatissimo dovrebbe apparire come cofondatore della repubblica riformata, sarà tutta discesa. Fi fingerà di reclamare il presidenzialismo, ma solo come battaglia di bandiera. Ricorderà l’importanza di riformare, prima o poi, anche gli articoli sulla giustizia, ma senza alcuna intenzione di farne una vera battaglia. Sull’Italicum, poi, Verdini ha sfondato le linee alla grande: difendere quella legge elettorale è diventato imperativo. Tanto che proprio il rischio di vederla travolta è stato uno degli argomenti risolutivi nel convincere il gran capo a ingoiarsi la riforma di Matteo.

Di argomenti convincenti, come sempre quando a decidere è l’imputato Berlusconi, ce ne sono stati anche altri. Primo fra tutti la speranza che, una volta finiti i processi Ruby, si possa finalmente tornare a parlare della mai dimenticata possibilità di grazia. Ma in ultima analisi sono i rapporti di forza, tutti a favore di Renzi, a decidere. Anche se strepitano per l’offesa recata dal decisionista fiorentino al Parlamento, Fi, e a maggior ragione l’Ncd, si sono già piegati.