Ne è passata di acqua sotto i ponti dal 30 settembre. Quel giorno il neo nominato capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio dal Festival del lavoro a Torino pronunciò queste parole: «Se il paese vuole essere competitivo le organizzazioni sindacali devono cambiare radicalmente». Per concludere con una vera minaccia: «O i sindacati si autoriformano o, quando saremo al governo, faremo noi la riforma».

Ieri lo stesso Di Maio, nelle vesti «di ministro del Lavoro e delle politiche sociali» ha preso parte al congresso del terza confederazione sindacale italiano, la Uil. Strappando applausi a scena aperta.

Un fatto impensabile per qualsiasi ministro dei governi a guida Pd che, con la scelta di Renzi di rottamare la concertazione e attaccare a testa bassa il sindacato, avevano scelto il conflitto e zero rapporti.

C’è sicuramente un effetto «luna di miele», c’è sicuramente il fatto che gran parte degli iscritti e dei delegati della Uil – più forte al Sud – ha votato il M5s. Ma questo non basta a spiegare il cambio di atteggiamento e ancor di più l’apertura al dialogo che il doppio ministro e vicepremier ha promesso anche con Cisl e Cgil.

Ieri Di Maio è arrivato addirittura a dire, parlando taglio alle pensioni d’oro: «Spero che su questo mi possiate dare una mano nei prossimi giorni».

Anche il fatto che la richiesta di aiuto arrivi più sulle pensioni e meno sui riders va spiegata. Sul tema gig economy Di Maio ha infatti scelto di incontrare prima i comitati di lavoratori che hanno creato sindacati spontanei e slegati dalla confederazioni tradizionali, mentre non ha deciso se e quali categorie – logistica o commercio – di Cgil, Cisl e Uil convocare per la trattativa con le imprese della food delivery.

«So che qui molti pensano che non sia una questione di soldi, no, è questione di giustizia sociale», ha detto Di Maio, riferendosi al taglio dei vitalizi. Lo stesso schema verrà seguito per il taglio alle pensioni d’oro. «Quelle sopra i cinquemila euro vanno tagliate se uno non ha versato i contributi per avere la pensione d’oro e con quei soldi aumenteremo le pensioni minime», ha sostenuto più volte il ministro in questi giorni, dopo aver incontrato il presidente dell’Inps Tito Boeri – in predicato di essere confermato nonostante fosse stato nominato da Renzi.

Per rendere praticabile l’idea serve infatti l’assenso dei sindacati. Che però sul tema pensioni hanno ben altre richieste. La mossa di Di Maio è infatti come al solito propagandistica: in Italia solo 30 mila persone hanno una pensione netta sopra i 5mila euro e la cifra che si risparmierebbe ricalcolando i loro assegni tutti con il sistema contributivo è solo di 100 milioni – senza contare che la flat tax comporterebbe per loro un risparmio molto superiore al taglio della pensione.

Per questo il primo «aiuto» chiesto da Di Maio ai sindacati rischia di diventare una polpetta avvelenata. A meno che il ministro non decida di aprire «una nuova fase» sulle pensioni ridiscutendo tutte le modifiche alla riforma Fornero.

Perché l’idea di reinserire quota 41 e quota 100 con 64 anni di età – in entrambi i casi conteggiando al massimo solo due anni di contributi figurativi – non favorirebbe di certo i lavoratori iscritti ai sindacati, se non pochi metalmeccanici del Nord – che non hanno subito la crisi – e alcuni dipendenti pubblici.

Mentre i sindacati – Cgil in testa – spinge per una pensione di garanzia per i giovani.