Si è conclusa Vie, la rassegna di nuova spettacolarità che ogni anno porta nuove conoscenze e nuove scoperte per ogni spettatore. Quest’annata si può dire particolarmente fortunata: dopo le fulminanti apparizioni dell’ungherese Mundruczo e del franco-uruguayano Sergio Blanco (di cui ora è già in arrivo a Firenze un’altra creazione), la rivelazione finale è arrivata dalla Grecia. Si chiama Dimitris Kourtakis, ed è l’ideatore ,regista e scenografo di Failing to levitate in my studio. Chi poi agisce, e soffre, e strabilia, nel suo «fallire la levitazione nel proprio studio», è un performer di assoluta bravura e intensità, Aris Servetalis, che instancabile cerca di sollevarsi, arrampicarsi, percorrere, attraversare la strana geometria della scena. Che è una enorme «cosa», un gigantesco dado parallelepipedo, bianco con tutte le sporcature e striate che si prende dagli elementi e dai tentativi dell’attore di «espugnarlo».

PERCHÉ quel gigantesco e plumbeo cubo di gesso, che occupa l’intero palcoscenico per altezza e larghezza, ha anche una «ferita» profonda al suo centro, un taglio verticale che rende praticamente impossibile la sua conquista e il suo superamento. Forse raccontato così, potrebbe apparire un esercizio di alpinismo domestico o giù di lì. Ma a rendere vibrante e sofferta quella «scalata» che tenta l’evasione, ci sono le parole, vere sbarre di senso e forza, che l’uomo biascica e blatera, quasi ne cercasse di aprire il senso profondo. E sono parole non qualsiasi, ma strappate a molti diversi testi di Samuel Beckett. Quando da indizi minimi lo si capisce, nei sopratitoli che traducono la parlata greca dell’uomo, tutta l’operazione fa uno scatto, tra dolore e impotenza, e ovviamente mistero. Perché del personaggio, dalla platea, si intravvedono solo particolari, brandelli e arti e scarpe, in disperato e rallentato movimento. Solo ogni tanto il campo visivo si apre su di lui, grazie alla telecamera e al suo operatore, le cui immagini appaiono proiettate sulla parete frontale della struttura.

A QUEL PUNTO l’uomo trascende dalla quotidianità in camicia bianca e pantaloni neri, e assume il senso e i tentativi di molti miti che proprio dalla cultura greca abbiamo ereditato. Da Prometeo che sfida gli dei e cerca di liberarsi delle sue catene (che qui sono catene di parole), al figlio del Sole Fetonte che alzandosi verso la propria origine cadrà rovinosamente a terra col suo carro. Il suono greco delle parole beckettiane è la maglia ferrea dell’atmosfera, ma anche la traccia della coscienza umana per poterla oltrepassare. Una impresa disperata, e disperatamente affrontata. Grazie non solo all’autore, capace di tessere una tale tela spettacolare, ma anche al performer, che poi si scopre essere interprete di diverse creazioni di Dimitris Papaioannu, il coreografo visionario che fin dalla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Atene del 2004, si è affermato come uno dei maggiori artisti della scena internazionale contemporanea.

E NONOSTANTE ci sia stato qualche lieve problema tecnico (ai microfoni), l’emozione e la riflessione per lo spettacolo, aprono uno scenario di lettura fortemente coinvolgente, e anche rivelatore della forza che l’arte riesce a esprimere, pur nella Grecia martoriata dall’Europa e dai debiti dei suoi antichi governanti. E rendono anche difficile riprender la trama di molti degli altri spettacoli, italiani e non, che molto facilmente scoprono l’equivalenza tra pretese e carenze, ancora da elaborare.