Oggi la commissione di vigilanza dovrebbe votare i due vertici Rai proposti dal Tesoro e da palazzo Chigi, i tasselli più importanti del puzzle, il presidente e soprattutto l’amministratore delegato. Ieri sera però non c’era ancora uno straccio d’accordo.

Quindi, anche se la maggioranza ripete di non voler mandare deserta la riunione per prendere tempo, salvo intese in extremis la riunione verrà tenuta formalmente ma aperta ma di fatto aggiornata sino a quando dal cilindro di Salvini, Di Maio e Tria non verrà fuori il cavallo di viale Mazzini.

I GIOCATORI IMPEGNATI nella partita infatti non sono due ma tre e sarebbe proprio questo a complicare un gioco già molto difficile.
La pedina chiave è ancora quella del Tg1. Quella nomina dovrebbe arrivare in un secondo tempo. Spetterebbe formalmente al cda, e sono quindi comprensibili e giustificate le proteste del Pd che denuncia con Anzaldi lo strappo.

Ma al vicepremier leghista simili particolari «formali» non interessano. Vuole definire subito l’intero quadro, con le due nomine in sospeso decise contemporaneamente a quelle dei direttori di rete e dei Tg. Ieri pomeriggio le agenzie di stampa avevano annunciato un vertice in realtà inesistente. Salvini era sì arrivato a sorpresa a palazzo Chigi, ma solo per incontrare il sottosegretario Giorgetti.

DEL RESTO A RENDERE impossibile un vertice sarebbe stata comunque l’indisponibilità di Di Maio. Ma i due leghisti proprio e solo di nomine hanno comunque discusso.
Salvini insiste per affidare alla Lega il Tg regionale e l’ammiraglia dell’informazione, postazione per la quale ripete un nome solo: quello di Mario Giordano, l’ex direttore del Tg4 defenestrato perché «populista». È possibile che alla fine il Carroccio «ripieghi» su Gennaro Sangiuliano, oggi vicedirettore, anche lui in quota Lega ma gradito anche a Conte e soprattutto già interno, il che gli garantirebbe vita più facile in una redazione difficile come quella del Tg di Raiuno. Ma per ora il capo leghista punta i piedi su Giordano.

IL M5S RECLAMA lo stesso posto, impugnando la regola da sempre tassativa che lo assegna al partito di maggioranza relativa. Anche in questo caso il candidato è unico: Peter Gomez, oggi direttore del Fatto online.

Ma appunto i giocatori non sono due bensì tre, e il terzo incomodo fa pesare il diritto di decidere lui il nome del presidente e dell’ad per mettere bocca sull’intero assetto. Va da sé che la definizione di ogni casella implica che siano certe anche tutte le altre: di fatto Tria può esercitare un potere di veto complessivo. Oltretutto può farlo con alle spalle il Quirinale, che conta sul fatto che il Tesoro faccia valere i propri diritti per impedire l’arrembaggio «populista».

DUNQUE LA POLTRONA della discordia non è solo contesa tra i due soci del Contratto ma è anche esposta al verdetto di via XX Settembre. Traballano così le due teste di serie, con la Lega che ostacola il superfavorito Fabrizio Salini, sponsorizzato da Di Maio, per il posto di Ad, facendo così salire le quotazioni dei competitors: Andrea Castellari, Marcello Ciannamea e Valerio Fiorespino. In difficoltà, nella corsa alla presidenza, anche Giovanna Bianchi Clerici, sospetta di berlusconismo forse anche perché l’allora Cavaliere soleva chiamarla «la soldatessa». Ma per la presidenza il labirinto è ancora più tortuoso. Lega e M5S non hanno i numeri per ratificare le nomine in vigilanza: serve l’appoggio di Fi o del Pd. Ma i due partiti hanno stretto un patto: promettono di affossare qualsiasi candidato non sia Giovanni Minoli, che purtroppo non è gradito a chi dovrebbe nominarlo, il Tesoro, e inoltre è un maschio, mentre manca ancora una donna per raggiungere la quota femminile stabilita dalla legge Madia.

IL NODO TG3 potrebbe essere sciolto con la conferma di Luca Mazzà, quota Pd ma non sgradito a Salvini, nel qual caso otterrebbe un posto di estremo rilievo ai vertici della Rete l’altro candidato per il Tg d’opposizione, Alberto Matano, quota 5S, accusato con Sangiuliano di aver incontrato privatamente a casa sua Di Maio, salvo smentita di tutti gli interessati. Solo che se col Pd tutto si dovesse ingarbugliare nel voto della vigilanza, anche la sedia di Mazzà finirebbe rovesciata.