Sono passati ormai sedici mesi da quando l’Italia è stata messa in mora dalla Corte europea per i diritti umani per la violazione sistematica del divieto di pene o trattamenti crudeli e degradanti e la popolazione detenuta è diminuita di 6.222 unità. Avevamo una eccedenza di circa 25mila detenuti sui posti-letto regolamentari disponibili nel nostro sistema penitenziario ed è stata ridotta di 10mila unità. Restano, dunque, 15mila detenuti che non hanno un ricovero «a norma». Nonostante l’ultimatum della Corte europea, nonostante il solenne messaggio alle Camere di Giorgio Napolitano, nonostante l’adozione di ben due decreti-legge in materia, nonostante l’impegno profuso dal Ministero della giustizia e dall’Amministrazione penitenziaria, a tre settimane dalla scadenza di quel termine non siamo ancora a metà dell’opera. Come mai?

Certamente perché non si è voluta ascoltare la saggia indicazione di Napolitano (adottare un provvedimento straordinario di clemenza mentre si ponevano in opera le riforme strutturali del sistema penale e penitenziario).

Certamente perché le sirene populiste sono incantate dalle virtù taumaturgiche della galera assai più che dal rigoroso rispetto dei diritti umani. Certamente perché l’intendenza segue con fatica burocratica le migliori intenzioni dei suoi condottieri. Certamente per tutte queste ragioni, e per altre ancora. Non ultima, però, per l’interdetto italiano a una seria discussione delle politiche sulle droghe e del loro ruolo nei processi di criminalizzazione e di incarcerazione di massa.

Anche di fronte alla storica sentenza con cui la Corte costituzionale ha cancellato d’un colpo la legge Fini-Giovanardi la reazione è stata molto al di sotto delle aspettative. Serviva un decreto-legge per sanare le incongruenze oggettive determinate dal ripristino della legge previgente e qualcuno invece ha tentato il colpo di mano, provando a ripristinare per decreto la legge abrogata dalla Consulta. Assediata dal Nuovo Centro-Destra di Alfano e Giovanardi, la Camera non ha potuto migliorare significativamente il decreto ed ecco che un intellettuale soi-disant liberale come Giovanni Belardelli chiede dalle pagine del Corriere nazionale di dar credito alle teorie dell’ex zar antidroga e di classificare tra le droghe più pericolose la fantomatica “super-cannabis” ad alto contenuto di principio attivo. Ora lasciamo perdere la questione dell’esistenza della «super cannabis» e delle sue proprietà, ma il liberale Belardelli non sa che l’unico effetto della sua eventuale riclassificazione consisterebbe nell’aggravamento di pene per la sua detenzione? Miracolati dalla Corte costituzionale, vogliamo tornare esattamente al punto di partenza?

I postumi carcerari del trentennio neo-liberista non si sentono soltanto da noi. Anche altrove si stanno facendo i conti con quel passaggio dal “sociale” al “penale” che ha modificato le forme del controllo sociale nei decenni passati. Solo da noi, però, la coazione a ripetere assume questa pervicacia. Negli Stati Uniti l’Amministrazione Obama è partita da definire forme di non punibilità della detenzione di sostanze stupefacenti per arrivare ad annunciare un uso generalizzato del condono presidenziale per i reati di droga. Come se, in Italia, riconoscessimo che il sovraffollamento penitenziario non si risolve senza una modifica sostanziale della legge sulla droga, tornassimo alla compiuta depenalizzazione del consumo di droghe e si approvasse un’amnistia ad hoc per i condannati per detenzione di sostanze stupefacenti. Mica roba da fricchettoni, solo una politica coerente e conseguente alla constatazione dei danni umani e sociali della criminalizzazione del consumo di droghe.