I bianchi a contrasto, inseriti entro contesti scuri di verdi guasti incupiti da nero di vite e di terre brune mischiate al nero di bugia. Bianchi di titanio o di zinco che svettano, saltano agli occhi, balzano d’una forza intatta. Anche quando si impongono non privi di impurità. Non li puoi dire sporchi, ma, nel rilievo conferito loro da un tocco carico, spalmati pesanti e tali, dunque, da indurre il sospetto di un senso di trascurato, di buttato lì. Bianchi apposti con una pressione che piega le setole e rilascia il pigmento a bioccoli schiacciati, a sbaffi, a nappe. Dico bianchi tracciati da un piatto pennello gravido, non perfettamente netto, che può aver sfiorato un colore contiguo e macchiare appena, quasi per distrazione o per eccesso dell’energia racchiusa in un gesto imperioso e, apparentemente, poco controllato. Bianchi spremuti dal tubetto sulla tavolozza e sollevati dal pennello a grumi (come col mestolo chi voglia assaggiare una purea) e condotti sulla tavoletta di compensato e stesi, ma appena, con rapidità di polso, che si mantenga lo spessore della pasta. Applicati alla brava, diresti. Quella bravura che non si ferma davanti a una difficoltà e che sta tutta nell’operare. «Bravura nelle arti, dice Niccolò Tommaseo, è maniera franca di condurre le cose difficili, e di vincere gli ostacoli con ardita facilità. La bravura, inoltre, si può ristringere ad un solo atto». Singoli colpi condotti in successione (torna alla mente l’«io tocco» di Cyrano) capaci di istituire con padronanza perfetta contatti cromatici che, per screzio e discrepanza, mettono capo a un insieme compatto. Ne risulta una coesione che salda lo smagliante in luce al cupo in ombra. Quei bianchi ora sono non accostati ai neri – neri unti di morchia, d’asfalto, di denso bitume – ma sono coi neri, per forza di pittura, tutt’uno. Unità di orli, dove la luce vibra e ferisce. E vedi che il quadro si è composto allora non come illustrazione o riproduzione d’una scatola, di una borsa, di un foglio di carta. Ha invece preso una forma che ti costringe a subire la imperiosa, presente sensazione della carta, del lacerto di cuoio, del pacchetto. Svolgo queste considerazioni mentre osservo Sull’asfalto un olio su tavola dipinto da Titina Maselli nel 1948. Qui l’impianto cromatico e l’enunciazione tematica sono affrontati come cogente nesso di implicazione reciproca e simultanea, non mai scindibili, per richiamare concetti di Cesare Brandi, in formulazione d’immagine e in costituzione d’oggetto. Da qui l’impegno costante di Maselli ad attenersi in pittura, come ha dichiarato, alle «cose in sé». «Detriti urbani, relitti, scarti, avanzi, scatole stropicciate di sigarette, giornalacci strappati… paesaggi urbani di notte, cieli notturni tagliati dai fili elettrici, masse di alberi dense, sporche, intorno alla stazione. La notte scritta, le scritte dalla notte se vuoi. I quotidiani sportivi appallottolati o abbandonati sul selciato, come dire, il panta rei, il continuo andare e delle volontà e della perdizione». Così Titina, in una conversazione con Lea Vergine apparsa su il manifesto il 25 marzo del 1984. Il contatto con «le cose in sé» è, fra gli altri, argomento di uno scambio epistolare, nel 1967, tra Maselli e Renzo Vespignani. Disporsi ad esser colpiti, aggrediti da «una verità sempre più sonora ed inequivocabile» per trarre la energia che realizza l’essere afferrato in un afferrare e stringere e dominare per via di pittura «il nostro incontro con la multiformità, la complessità e anche la compatezza della realtà». Sicché l’esporsi al tiro di una identità specifica, «la cosa in sé», vale a cogliere l’identità come immagine, a renderla cioè forma inequivocabile: «afferrare e poetare». A Lea Vergine Titina dice: «a me interessava far tabula rasa della sapienza della pittura a favore dell’icasticità». L’icastico, ovvero quanto decidiamo debba colpirci per evidenza e risalto, per indiscutibile spicco. L’icasticità che a noi si impone ed è, al contempo, da noi conferita: ci esponiamo ad essere noi colpiti dalla eloquenza abbagliante di una identità specifica che noi poetiamo, definiamo, costruiamo in immagine effettiva, irrinunziabile: reale.