Mancano solo due settimane all’inizio del nuovo anno scolastico, eppure quanto apprendiamo dalle cronache di questi giorni lascerebbero pensare che quella data sia ancora molto di là da venire.

Come fosse qualcosa di improvviso e non previsto, la discussione di volta in volta verte sulle problematiche più disparate, dai banchi in grado di mantenere gli alunni distanziati, alla capienza delle aule, dall’obbligatorietà nell’uso delle mascherine tra i ragazzi alla numerosità delle classi, dal numero di passeggeri sui mezzi di trasporto alla frequenza e numero dei mezzi stessi. Tutti problemi seri, la cui soluzione tecnica può essere diversa a seconda dei contesti e delle situazioni di partenza, che richiedono disposizioni specifiche e mirate che partano dai bisogni e tengano conto delle esigenze sul terreno, che non possono essere le stesse per ogni scuola, città o paese o territorio.

Eppure, siamo arrivati al 14 settembre come se in questi mesi ci fossimo occupati d’altro – inaspettatamente il tempo è “volato” – e solo oggi ci accorgiamo che davvero, per poter riaprire le scuole di ogni ordine e grado, in una situazione di contagio ancora in atto e lungi dall’essere debellato, ci sono un sacco di problemi da risolvere.

Ma davvero non sapevamo già, il 3 maggio quando venne decretata la fine del lockdown, che avremmo dovuto affrontare tutti i mille problemi grandi e piccoli che la dichiarazione «mai più il lockdown» e il garantire la didattica in presenza avrebbero comportato?

Ma quale modello organizzativo o idea del governo c’è dietro a tutto questo? Cosa è cambiato oggi che non si sapesse già allora? Perché non si sono messi in fila problemi e priorità stabilendo cosa andava fatto e le relative responsabilità? Solo perché il sistema è complesso e, dal Ministero in giù, i livelli di governo – nazionale, regionali e locali – sono molteplici e vanno coordinati?

Non occorrevano “tecnici” particolarmente qualificati per sapere, ad esempio, di quanti banchi si dovesse disporre, di quante aule, di quanti docenti, di quanto personale amministrativo vi fosse bisogno nella nuova fase. Non esiste forse una mappa dell’esistente? Ma quale amministrazione, quale organizzazione è quella che non sa di cosa dispone per dire, a richiesta, di cosa necessita? D’accordo, occorreva fare una ricognizione. Ma quanto occorreva – in tempo e risorse – per fare tale mappatura? E cosa occorreva fare, una volta ottenuta la “mappa”, per pianificare, mandare avanti gli ordini, agire? Consultare le parti sociali?

Avviare trattative?

In realtà, nel caso della scuola appare vero il detto che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Sono anni che vengono denunciati i ritardi e le carenze del sistema scolastico italiano. Sono anni che si parla di carenze del personale docente e amministrativo (il che vuol dire che sono anni che si sa che l’attuale organico è insufficiente). Il lockdown ha aggravato la situazione, mettendo in evidenza drammaticamente anche altre carenze, la più grave delle quale appare senz’altro il non essere riusciti a raggiungere, con la didattica a distanza, un terzo degli alunni.

Ma ora, sulla spinta dell’azione di «rilancio» sostenuta anche dall’Europa, era stato detto, finalmente, che la scuola e l’intero sistema dell’istruzione avrebbe ricevuto le attenzioni dovute. Dopo anni di tagli e di riorganizzazioni – finanche di «riforme» (ultima la «buona scuola», benedetto sia il suo nome) – la scuola avrebbe ricevuto personale e infrastrutture. Con un cambiamento di rotta «epocale», l’Italia avrebbe ricominciato ad investire in istruzione, capitale umano, formazione.

Ma se il lupo ha perso il pelo – l’Italia è tra i Paesi europei tra gli ultimi nella quota di spesa per istruzione – promettendo di ridare il giusto peso alla scuola, non ha perso il vizio. Quale modello di gestione del sistema scolastico, infatti, soggiace alle politiche del governo attuale? Quello di sempre, ovvero quello della scuola-impresa, affidata ai presidi «manager», il modello disarticolato delle «autonomie» che finisce per penalizzare i piccoli (e poco dotati di mezzi) per favorire i grandi (ben dotati). Lo vediamo in questi giorni e sappiamo come andrà a finire, che si tratti di banchi o di aule, di trasporti o di plessi scolastici.

Non solo l’Italia è tra i Paesi europei in cui gli studenti sono più impreparati, il cui rendimento è tra i peggiori in Europa, ma i suoi ritardi sono maggiori nelle zone più disagiate, al Sud più che al Nord, nelle zone interne e periferiche più che in quelle urbane. E lascia in qualche modo sorpresi, quindi, che proprio quelle forze politiche al governo che da quei territori hanno ottenuto il sostegno maggiore – come i 5 Stelle – o che ne avevano pagato il prezzo – come il Pd o anche LeU – di fronte alla prova abbiamo mostrato tale improvvisazione. Lasciando che a goderne sia il populismo della destra responsabile di tante malefatte nella scuola.

Perché questo è ciò che sta, alla fine, apparendo chiaro: una questione come la riapertura delle scuole nelle condizioni attuali è stata affrontata in modo scoordinato, senza visione d’insieme, senza un piano che mettesse insieme responsabili e addetti, lasciando che alla fine fossero gli utenti finali – gli studenti e le loro famiglie – a pagarne il prezzo. Nulla è cambiato, avranno perso il pelo, ma il vizio è ancora quello di prima.