«L’Unione europea condanna la repressione della stampa turca, ma è pronta a chiudere gli occhi di fronte alla violazione dei diritti umani di migranti e rifugiati messa in atto dal governo di Ankara. Questa è pura ipocrisia. La Turchia non garantisce i diritti umani dei suoi cittadini, figuriamoci quelli di stranieri in fuga dalla guerra». Riccardo Nuri, portavoce di Amnesty international Italia, condanna senza mezzi termini l’operazione che Bruxelles sta conducendo con il governo turco per fermare le partenze dei profughi diretti in Europa. «Stiamo assistendo a una riedizione di quanto accaduto in passato, quando si facevano accordi con i paesi del Mediterraneo meridionale. Soprattutto mi sembra di rivedere l’accordo fatto dall’Italia con la Libia di Gheddafi in cui noi oltre a pagare fornivamo materiali e aiutavamo a costruire centri di detenzione».

L’Europa fa male a fidarsi di Ankara?
L’Europa fa un calcolo cinico sulla pelle e sulla vita di persone che stanno scappando dalla guerra in Siria, in Iraq, in Afghanistan. Ma penso anche a quanto sta accadendo nel Sud-Est del paese, dove le operazioni militari sono ancora in corso e dove in alcune zone la situazione dal punto di vista umanitaria è disperata.

Come vengono trattati i rifugiati?
Va detto che in questi anni la Turchia ha fatto uno sforzo enorme ospitando 2,5 milioni di rifugiati. Riconosciuto questo, resta il fatto che le condizioni nei campi per molti sono insostenibili. Ci sono almeno 400 mila persone, i cosiddetti vulnerabili, che non possono assolutamente stare nei campi: minori non accompagnati, vedove, orfani, malati di cancro, vittime di stupro e di tortura. Per questi stiamo chiedendo all’Unione europea di garantire un reinsediamento in tempi rapidi. Ci risulta che i bambini non hanno avuto accesso al sistema educativo. Abbiano notizie, forniteci da associazioni locali per i diritti umani, di minori non accompagnati che entrano nel circolo del lavoro nero. Quello che poi abbiamo verificato all’indomani dopo il primo negoziato del 2015, in cui si è deciso di stanziare 3 miliardi di euro alla Turchia, è che sono stati fatti dei rastrellamenti, i migranti sono stati portati in centri di detenzione simili ai Cie italiani situati nell’Est del paese dove hanno subìto maltrattamenti. Sappiamo inoltre di respingimenti forzati verso Siria e Iraq. Senza parlare della situazione che c’è adesso in Siria dopo l’offensiva su Aleppo, con ancora migliaia e migliaia di persone bloccate alla frontiera turco-siriana e con Ankara che lascia passare solo i malati gravissimi respingendo tutti gli altri, come se non sapesse che in Siria ormai non ci sono più, o quasi, ospedali che funzionano.

Eppure la Turchia ha firmato la Convenzione dei rifugiati del 1951.
La Turchia ha sicuramente fatto parte della convenzione del 1951, ma va detto che gli standard internazionali ormai vanno ben oltre i problemi dell’epoca, che riguardavano la necessità di fornire protezione a persone in fuga da tutt’altre zone geografiche.

Il fatto che la Turchia chieda di essere riconosciuta come paese sicuro non rischia di peggiorare ulteriormente i rischi per i migranti?
E’ una richiesta che ci preoccupa moltissimo, però noto che questo stratagemma del paese sicuro viene invocato da più parti. Lo ha fatto anche l’Ungheria nei confronti della Serbia, e più in generale ha adottato una legge che prevede più di venti paesi cosiddetti sicuri. Ripeto: la Turchia non è un paese sicuro neanche per i suoi cittadini. Figuriamoci se può esserlo con i cittadini stranieri. Oltretutto c’è questa allarmante situazione dei respingimenti verso zone di guerra, prassi del tutto illegale. L’Unione europea è perfettamente consapevole del partner con cui sta avviandosi a chiudere questi accordi, ma fa finta di non vedere. Chi oggi critica la situazione dei diritti umani per un episodio certamente grave come quello del quotidiano «Zaman», e allo stesso tempo afferma che si può procedere con l’accordo sui migranti è solo un ipocrita. L’unico obiettivo di Bruxelles è quello di chiedere ad Ankara un servizio di guardianìa alla frontiera in modo da fermare i profughi.