Compirà a 85 anni a dicembre Michael Snow, artista visuale, musicista ma soprattutto cineasta, uno degli ultimi maestri del cinema sperimentale, autore di capolavori come Wavelenght (1967) e La Région Centrale (1971), ma anche di videoinstallazioni e, dunque, di un’idea di “espansione” e “ri-mediazione” delle immagini in movimento che ha attraversato diverse epoche. Nato a Toronto, ma formatosi anche negli Usa, amico di Mekas e compagni e dunque aderente al New American Cinema, Snow è sempre stato un innovatore, un autore curioso, in grado di rinnovarsi, di confrontarsi con i dispositivi, perfino secondo una logica di modernissimo remix estetico-tecnologico. Pensiamo al braccio meccanico programmato elettronicamente su cui ha montato la cinepresa per realizzare le panoramiche del paesaggio canadese ne La Région Centrale: quello stesso dispositivo da lui progettato, è diventato un anno dopo un’installazione videodal titolo De La (e si trova oggi nella collezione della National Gallery of Canada a Ottawa). Un altro recente esempio di rielaborazione di una sua opera è proprio Wavelenght, divenuto nel 2003 WVLNT(“Wavelength For Those Who Don’t Have the Time”). I 45 minuti sono stati ridotti a 15, secondo un procedimento di sovrapposizione delle diverse parti del film. Le dissolvenze incrociate su quello che vuole essere un unico e lento avvicinamento della macchina da presa a una fotografia del mare che si trova sulla parete di fronte, rende il film originario – modello insuperato di cinema strutturale – ancor più visionario e ipnotico. La stessa tecnica della sovrimpressione Snow l’ha utilizzata anche nel suo film “monocanale” più recente, ovvero SSHTOORRTY, a dimostrazione di come la sua estetica, col passare degli anni, si basi maggiormente sulla sedimentazione delle immagini.

A ripercorrerla tutta retrospettivamente la filmografia di Snow, a partire da quel suo primo esperimento che è A to Z (1956) fino al citato SSHTOORRTY (2005), ci si rende conto della varietà dei suoi esperimenti, alcuni strutturalisti e decisamente astratti, come Back and Forth (1969), panoramiche ossessive destra/sinistra, alto/basso di un’aula, o Seated Figures (1988), carrellate di differenti texture stradali filmate da un automezzo in piano ravvicinato; altri più complessi, articolati e “figurativi”, con risvolti narrativi, come Rameau’s Nephew by Diderot… (1974), Presents (1980-81) o To Lavoisier who Died in The Reign of Terror (1991).

Michael Snow è il cineasta dei movimenti di macchina e dei piani-sequenza, è il cineasta dove la rappresentazione lascia sempre il posto a una riflessione sul dispositivo, sulla durata, sullo spazio e, dunque, su tutte le componenti costitutive di un’immagine presentata nella sua precaria condizione di instabilità. Snow è, altresì, il cineasta degli spazi aperti naturali (La Région Centrale, One Second in Montrèal)e degli interni claustrofobici, preferibilmente uffici (Wavelenght, Back and Forth, See You Later, Corpus Callosum), ma anche degli elementi naturali: dall’aria (La Région Centrale) alla terra (Seated Figures), dal fuoco (To Lavoisier…) all’acqua (il finale emblematico di Wavelenght).

Ma l’estetica di Snow sconfina dallo schermo video-cinematografico, assumendo forme sempre diverse. C’è lo Snow musicista, pianista e creatore di suoni al sintetizzatore, in cui fonde jazz e musica classica, musica elettronica e concreta. Lo Snow artista visuale che crea e/o trasforma oggetti, concepisce sculture, gioca a replicare all’infinito una stessa figura, come fosse una sorta di logotipo (le sue famose Walking Women) inserendole (e fotografandole) in contesti sempre diversi: sagome che interferiscono nel paesaggio urbano e si relazionano con i passanti, ponendosi al tempo stesso come metafore di un tipo di serialità filmica. Lo Snow fotografo, che slitta verso il concettuale o la meta-fotografia (pensiamo a una delle sue opere più conosciute e originali come Authorization del 1969, poliautoritratto per successiva accumulazione e sedimentazione). Lo Snow  “installatore”, che lavora sulle strutture minimali, creando dispositivi oggettuali per la visione, con l’ausilio di specchi deformanti, cornici, vetri trasparenti, ecc. Il documentario Michael Snow Up Close (1994) di Jim Shedden, visibile su Vimeo, racconta molto sinteticamente l’attività multiforme dell’artista canadese.

Anche se nella conversazione che segue Snow definisce ogni forma espressiva un mondo a sé stante, è inevitabile riscontrare nei diversi campi esplorati dall’artista frequenti punti di contatto, spunti condivisi, elementi ricorrenti che vengono rielaborati e, appunto, “rimediati”, adattati nel passaggio da un medium all’altro, arricchendosi visivamente e acquistando significati sempre nuovi e diversi. I trenta scatti fotografici che compongono la sua opera Atlantic, per esempio, non sono altro che la sequenza completa dell’immagine delle onde marine con cui si conclude Wavelenght (entrambi lavori sono, infatti, del 1967).

Snow, a differenza di altri filmmaker, è sempre stato attento ai cambiamenti tecnologici. Ha lavorato con l’olografia e, fin dai primi anni ’70, pur girando i suoi film in 16mm (e qualche volta in 35mm) ha utilizzato il videotape, anche se solo per le sue installazioni, fino a Corpus Callosum (2002), unico lavoro destinato alla proiezione in sala realizzato in video, nonché opera davvero sorprendente, non tanto perché l’artista si misura con le possibilità di manipolazione dell’immagine tipiche della post-produzione, quanto perché non rinuncia alla sua identità stilistica conducendoci, con assoluta libertà, in un territorio di confine tra due emisferi (il cinema e il video, il sogno e la veglia):  Il “corpo calloso” è, in termini scientifici, uno dei sistemi di fibre che collegano i due emisferi telencefalici che formano il nostro cervello. Le lesioni al corpo calloso provocano, si legge su Wikipedia «gravi deficit di coordinamento dei movimenti, dovuti al fatto che la parte destra e la parte sinistra del nostro cervello non sono più in grado di comunicare e, quindi, di lavorare sinergicamente». In questo videofilm (o opera di “videoarte” che dir si voglia) Snow mette in scena tutto ciò: i disturbi neuronali si ripercuotono sulle azioni dei personaggi, ma anche sulla struttura stessa delle immagini, che si altera, si deforma, è attraversata da interferenze. Dall’ambiente lavorativo (l’ufficio, dunque lo spazio della quotidianità) Snow ci conduce per mano in un altro luogo, una sorta di camera dell’inconscio. E, tuttavia, sia nel mondo notturno sia in quello diurno, possiamo dare libero sfogo ai nostri desideri più reconditi.

Il cinema e l’arte di Snow nascono proprio dalle interferenze di un corpo calloso che diventa corpo poroso, in termini di intermedialità: pur nella sua varietà e ricchezza non è difficile amare e comprendere l’immaginario di Snow, che non è mai davvero freddo, mai concettualmente respingente ma, spesso e volentieri, perfino ludico e surreale. Basta solo sintonizzarsi sulla sua stessa lunghezza d’onda.

OGNI FORMA D’ARTE E’ UN MONDO A SE’

Conversazione con Michael Snow

La tua attività artistica è sempre stata multiforme: fotografia, cinema, pittura, scultura, installazioni, ma anche musica. Immagino che non ci sia una forma espressiva che tu preferisca sulle altre…  

Hai perfettamente ragione, non c’è una forma espressiva che preferisco. Ogni forma d’arte è un mondo a sé. La libera improvvisazione musicale è molto più “libera” rispetto (per esempio) alla creazione di un’opera scultorea.

 

Eppure negli anni ’50 hai deciso di cominciare a utilizzare proprio il medium cinematografico, che è diventato centrale nella tua ricerca. Come mai?

E’ avvenuto per caso. Nel 1954, dopo aver realizzato una mostra di miei disegni qui a Toronto, fui chiamato al telefono da un signore straniero. Questa persona mi disse di aver visto la mostra rintracciando l’influenza del cinema nei miei disegni. Non era vero. Voglio dire che il cinema non aveva affatto influito sulla mia arte grafica. Ero piuttosto influenzato da Klee e Picasso. Mi disse che era il direttore di una casa di produzione cinematografica di Toronto. Quest’uomo era George Dunning e sarebbe stato molti anni dopo il regista di Yellow Submarine. Ho lavorato con lui e con la sua società, Graphic Films, conoscendo e apprezzando il cinema d’animazione. Posso quindi dire che sono diventato cineasta a causa di Dunning.

 

C’è un elemento che accomuna le tue esperienze nel campo delle arti visive e quelle in campo cinematografico? Penso ad esempio alla struttura seriale delle Walking Women (1961-67) che richiama i fotogrammi dei film…

Si, è vero, ho lavorato sul concetto di sequenza, in vari campi. Sequenze è anche il titolo di un libro su cui sto lavorando attualmente per un editore catalano…

 

Wavelenght è forse uno dei film più belli di tutta la storia del cinema (non solo sperimentale), puoi raccontarci come è nata l’idea e se hai ricordi relativi alla sua lavorazione?

Mi ricordo bene delle riprese di Wavelenght ma ricordo bene anche i mesi precedenti, durante i quali ho riflettuto sul desiderio che avevo di concentrarmi sulle possibilità e sulle caratteristiche del cinema come mestiere. Costruire sequenze di una certa durata era uno degli obiettivi che mi proponevo.

 

Ritieni La Région Centrale un film sul paesaggio, se vogliamo perfino – a suo modo – un’opera di Land Art, o piuttosto un metafilm, una riflessione sullo sguardo della macchina da presa de-umanizzato? Una sorta di aggiornamento del “cine-occhio” vertoviano?

Quando ho realizzato La Région Centrale ho cercato di rispondere a questa domanda: come fare un film il cui soggetto fossero unicamente le immagini dello spazio e gli effetti del movimento, senza oggetti, senza personaggi, senza trama.

 

All’epoca in cui lo hai realizzato conoscevi per caso alcuni landscape films britannici girati nello stesso periodo da cineasti come William Raban o Chris Welsby?

No, non avevo visto i film di Raban e Welsby prima di lavorare a La Région Centrale e non li ho visti neppure per parecchio tempo dopo che il film era stato realizzato.

 

In molti tuoi film c’è un’attenzione particolare al tempo, soprattutto come riflessione sulla “durata” e sul rapporto tra staticità e movimento: penso a Wavelenght ma anche a One Second in Montreal o a See You Later…

La possibilità di formare e fissare davvero la durata è uno dei regali che il cinema ci offre. One Second In Montréal (1969) è sicuramente il più raffinato dei miei film per quanto concerne la percezione della durata da parte dello spettatore. Questo film è muto e non c’è movimento, è costruito solamente da immagini statiche e dalla loro durata sullo schermo. Anche So Is This – un altro mio film più recente, è del 1982 – lavora sull’immobilità e le durate sono precise.  Le “immagini” sono costituite da tipografia (le parole).  Dopo questo film ho fatto un’installazione video intitolata That, Cela, Dat (2000) incentrata anch’essa sul rapporto tra parole e durate, ma stavolta in tre lingue (inglese, francese e fiammingo) che vengono mostrate simultaneamente.

 

In quanto musicista presumo che tu attribuisca un valore fondamentale al suono nel tuo cinema…

Si, la relazione tra il suono e l’immagine è molto importante in alcuni miei film. Faccio qualche esempio: New York and Ear Control, girato nel 1964, è un film dove il suono e l’immagine sono paralleli, simultanei, ma non sincronizzati. La banda sonora di Wavelenght è complessa, si tratta infatti di un suono sincronizzato normalmente eppure è un suono numerico, uno slittamento che impiega 40 minuti per passare da una frequenza molto bassa e una molto alta. Nel 1974 ho terminato Rameau’s Nephew…, un film che ha una durata di quattro ore e mezza; si basa soprattutto sulla registrazione della voce: malgrado che la fonte del suono sia sempre la voce, le mie manipolazioni creano una banda sonora molto variegata e anche le relazioni tra le immagini (sempre personaggi che sono sul punto di parlare) e il suono (i suoni) sono piuttosto diversificate. Nel cinema (non nel video, attenzione) il suono e l’immagine sono separati, e io ho lavorato su questo elemento nella creazione di Rameau’s Nephew…, utilizzando anche molti linguaggi. Non ci sono personaggi ne La Région Centrale, ma viceversa le immagini di Rameau’s Nephew…, contengono sempre e soltanto personaggi.

 

Come hai vissuto il passaggio dal cinema al video. Ci sono differenze per te nel realizzare cineinstallazioni anziché videoinstallazioni?

A partire dalla mia prima videoinstallazione, De La (1972) che utilizza l’immagine video in tempo reale, ho creato numerose installazioni appositamente per le gallerie (non per una sala cinematografica, poiché queste opere sono pensate per spettatori in piedi non per un pubblico seduto). Per gli allestimenti in una galleria d’arte ho preferito sempre usare il videotape poiché le immagini vanno a loop per molto tempo e il video è più sicuro e durevole rispetto alla pellicola, sottoposta invece ad usura. Oltre alle videoinstallazioni è pur vero che ho girato in video un lungometraggio di 90 minuti come Corpus Callosum (2002), realizzato in digibetacam espressamente per la proiezione in sala cinematografica e non per la fruizione in una galleria.

 

Ma ci sono anche tuoi film in pellicola pensati per il contesto artistico…

Tutti i miei film in 16mm sono stati creati per essere mostrati in una sala cinematografica (un teatro), tranne Two Sides to Every Story (1974) che utilizza due proiezioni di 16mm simultanei; in questo caso i due film vengono mandati a loop. Sono inoltre necessari due dispositivi brevettati appositamente per l’occasione e aggiunti alle macchine di proiezione. Evidentemente quest’opera non può essere mostrata se non all’interno di una galleria d’arte.

 

Continui ancora a realizzare installazioni video?

Certo, per esempio nel 2013 ho creato ed esposto The Viewing of Six New Works, composta da sei proiezioni simultanee sul muro. Molto recentemente ho allestito In the Way, un lavoro video proiettato su un piano.

 

Ti sei occupato molto anche di olografia. Cosa pensi della moda del cinema 3D? Come vedi il futuro dell’immagine tridimensionale? Ritieni che il cinema sperimentale possa sfruttare al meglio questo tipo di dispositivo, sottraendolo al cinema commerciale che lo riduce a un gadget?

Voglio ricordare che, nel campo del film sperimentale, Ken Jacobs lavora da tempo con gli effetti di tridimensionalità, per esempio inventando il dispositivo della Nervous Magic Lantern.  Come tu dici mi sono interessato all’olografia, ma non ho mai provato a confrontarmi con gli effetti tridimensionali in campo cinematografico. Lo ritengo tuttavia un settore molto stimolante.

 

Diversi tuoi film presentano elementi narrativi, ma hai mai pensato di realizzare un’opera filmica totalmente narrativa?

Si, ci ho pensato e l’ho anche fatto, nel 2005. Il titolo è un mix tra due parole, “short” e “story”, che si sono fuse originando SSHTOORRTY, che è in effetti l’“immagine” del montaggio di questo film. La scena è costituita da un appartamento, tre attori e un dialogo (in lingua farsi). C’è solo un avvenimento (filmato in un’unica inquadratura) ma in fase di montaggio ho tagliato l’immagine esattamente in due parti e ho sovrimpresso i due “passaggi” l’uno sull’altro (incluso il suono). E’ una piccola storia (narrativa) raccontata simultaneamente. E’ corto (appena 3 minuti) ed è stato girato in 35mm; tuttavia, oltre a una versione cinematografica in pellicola, esiste anche una versione video in dvd da installare in galleria.

 

Cosa resta dell’esperienza del New American Cinema? Hai rimpianti per quella irripetibile stagione dell’underground degli anni ’60?

Sono stato molto fortunato a vivere a New York in quel periodo!  Credo che l’influenza del NAC resti molto forte.  E’ sorprendente.  Il fatto che molti giovani cineasti lavorino ancora oggi in 16mm è stupefacente. E’ vero che i film di Brakhage, Sharits e Frampton sono sempre in mezzo a noi, ma Ernie Gehr, Ken Jacobs e James Benning continuano a creare nuove opere che sono dello stesso livello qualitativo delle opere realizzate in quegli anni.

 

Cosa pensi in generale del cinema sperimentale canadese e di tuoi amici come Bruce Elder o colleghi come Guy Maddin. Il panorama secondo te è ancora molto vivace?

Poiché esistono moltissimi “schermi” (praticamente infiniti!) è davvero impossibile “giudicare” il mondo del “cinema” al giorno d’oggi.  Il Toronto International Film Festival (TIFF) è, ogni anno, un grande successo. Per me è sbalorditivo che continui ad esistere un pubblico per le sale cinematografiche. Riguardo ai filmmaker sperimentali, Bruce Elder è un cineasta molto bravo ma è anche autore di numerosi libri sul cinema, pubblicazioni davvero impressionanti.  Il suo saggio più recente, Dada, Surrealism and the Cinematic Effect (che consta di 765 pagine!) lo trovo eccellente. Prima hai citato Guy Maddin, devo dire che è ineguagliabile!

 

Parliamo ancora della tua attività di artista visivo. Stai preparando qualche mostra?

Da gennaio a maggio di quest’anno ho realizzato una delle più importanti esposizioni della mia carriera al Philadelphia Museum of Art, una mostra intitolata Michael Snow Photo-Centric che ha ricevuto un’ottima accoglienza (l’immagine di una delle mie opere era sulla copertina della rivista “Artforum”). Il museo di Philadelphia, del resto, è uno dei luoghi più  qualificati nel mondo dell’arte contemporanea. Come saprai Marcel Duchamp ha lasciato qui la sua opera a lungo tenuta nascosta Étant donnés…Attualmente sto preparando insieme ad altri due autori un libro che sarà pubblicato nel 2015 dalle Ediciones Poligrafa di Barcellona. Ad ottobre vado lì non solo per lavorare al libro ma, anche per progettare con l’équipe del museo La Virreina un’esposizione delle mie opere (sculture, fotografie, installazioni sonore e video) qui sarà allestita a maggio del prossimo anno. Quest’anno Poligrafa ha pubblicato un libro davvero impressionante (500 pagine) Marcel Broodthaers Collected Writings. Il mio libro sarà intitolato Michael Snow. Sequences. A History of His Art, si tratta appunto del libro che nominavo prima a proposito del concetto di “sequenza”.

 

Nel campo della musica continui a fare concerti?

Si, il prossimo novembre terrò alcuni concerti a Tokyo, sia da solo ma anche in trio con  Aki Onda e Alan Licht.

 

Hai in cantiere un nuovo film?

Non sarà esattamente un “nuovo film”, comunque durante l’estate ho ripreso in video qualche passaggio (paesaggi) che voglio aggiungere ad altri passaggi da utilizzare all’interno di un’installazione dal titolo Video Fields, che sto presentando da alcuni anni. In breve sto lavorando alla nuova versione di questo mio lavoro.