All’indomani della vittoria di Syriza, un professore di economia, intervenendo in un dibattito su TV7, ha predicato il divorzio consensuale tra «Nord» e «Sud» dell’Europa. Evidentemente per lui la definizione del futuro dell’Europa è una questione di «alimenti» e di divisione dei beni. Tanto a chi resta e tanto (il minimo) a chi se ne va e pronti a vita nuova. Peccato che questa vita non ci sarà, perché nella globalizzazione confusa, e organizzata per territori di caccia, più si è soli, più si è a rischio.

Non c’è futuro per nessun paese europeo nella divisione e nella frammentazione delle culture e delle risorse. La guerra in Ucraina e il disastro jugoslavo dovrebbero insegnarci qualcosa. Il caso greco è la cartina di tornasole per la tenuta europea.

Nessuno può mettere seriamente in dubbio l’importanza degli economisti, degli esperti che sanno interpretare i movimenti finanziari e gestire bilanci e conti. Nondimeno, gran parte di loro si è persa in una visione dissociata della realtà, che separa le quantità dalle qualità e impone i numeri come canone esistenziale. La loro «deformazione professionale» è al servizio di una amministrazione della società che usa la ricchezza materiale non come strumento di benessere, ma come qualità in se stessa.

In una sua intervista a Francesca Borrelli dieci anni fa (presente in «Maestri di Finzione», splendida interrogazione del nostro rapporto con la realtà attraverso la letteratura), Don De Lillo, grande scrittore americano, aveva colto pienamente il senso della quantificazione della nostra esperienza: «Quel che importa non è “cosa” si compra col denaro, ma “quanto” se ne spende, questa è la natura del cambiamento per cui il denaro parla a se stesso». Il “quanto” è diventato la misura della nostra (in)felicità. Il “quando” (il tempo opportuno dell’incontro), il “perché” (la domanda del desiderio), il” come” (le strade da percorrere) e il “dove” (il luoghi dell’incontro) subiscono la sua feroce sovradeterminazione nei rapporti di scambio, sempre più ineguali e inariditi.

La riduzione delle nostre ragioni di vita in quantità si ammanta di scientificità, perché è riuscita a contrabbandare il calcolo come misurazione di attendibilità matematica di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.

In realtà, il calcolo non ha nulla che lo ponga al di sopra delle parti, come giudice imparziale: è uno strumento di applicazione scientifica il cui uso non è neutrale, ma totalmente a favore del padrone che esso serve. Sempre di più questo padrone ha le sembianze dell’affermazione scientifica dell’egoismo.

Si affronta la questione del debito pubblico indipendentemente dalla difesa della qualità della vita dei cittadini, che pone come suo requisito minimo la salvaguardia della vita affettiva e dei legami erotici e la parità dei sacrifici sul piano dei bisogni materiali.

Il nuovo ministro dell’economia greco ha dichiarato che è per la «vita austera» ma non per l’«austerità piramidale». La vita austera rifiuta l’ottundimento dei sensi e delle emozioni provocato dall’abuso di prodotti che eccedono la possibilità di un loro uso reale e funzionano per questo in modo prevalentemente eccitante. Mette in movimento il desiderio (l’apertura a uno scambio vero) e, per questo, è l’obiettivo non dichiarato delle politiche di austerità che proteggono i ricchi. Sono politiche suicide, perché attaccando le qualità e favorendo la concentrazione delle quantità nelle mani di pochi, rendono insensata l’esistenza di tutti e improduttiva l’economia (concentrata nell’accumulazione di beni, che gli uni non sanno più usare e gli altri hanno sempre di meno).