È sbagliato pensare che i protagonisti dello scontro sulla crisi greca siano da una parte il governo di Atene e dall’altra la troika tornata in carica anche nominalmente, rappresentata da Merkel e Fmi. No, perché c’è anche il terzo «comodo» dell’Italia governata da Matteo Renzi. Un governo che grazie all’esilarante lavorio «giornalistico» di distratti e accodati commentatori (da Repubblica al Corriere della Sera, passando per la nuova gestione di Rainews24) è stato fatto passare addirittura per «mediatore». Un’invenzione di sana pianta, resa evidente dalle parole del presidente del Consiglio alla conferenza con Merkel. Così tutti di corsa a scoprire quello che era già luminoso: che il twittatore fiorentino, presunto mediatore, tra via greca e via germanica pende proprio per la linea dura, autoritaria e ricattatoria di Angela Merkel.

In linea del resto con la socialdemocrazia europea, visto che ieri Martin Schulz, presidente dell’Europarlamento, ha vergognosamente dichiarato a soli due giorni dal referendum: «Via Syriza dal governo, servono i tecnocrati». E magari tacendo una malcelata ammirazione per il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker che si è «democraticamente» rivolto al popolo greco invitandolo a votare sì.
Matteo Renzi non ha neppure bisogno delle rivelazioni di Wikileaks, com’è accaduto in queste ore per la premier tedesca spiata dalla Nsa americana mentre mostra crepe nelle sue convinzioni sulla crisi greca.

Renzi ha solo certezze: «Rispetto la decisione del referendum presa dal governo greco, ma io non l’avrei fatto». Almeno è sincero. Ci troviamo di fronte all’unica decisione democratica, dentro la crisi del sistema Europa. Una decisione che fa parte della strategia politica, oltre che del partito di Syriza, di un governo – entrato in carica per volontà popolare solo 5 mesi fa, dopo il fallimento della destra – che amministra l’esecutivo per rispondere alle esigenze popolari chiamando a decidere i cittadini.

È sicuro che Renzi «non l’avrebbe fatto»: governa infatti senza mai essere stato eletto democraticamente (vantando i risultati delle elezioni europee che non riguardavano l’esecutivo) in virtù dello spirito santo che lo ha nominato dall’alto: l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Sorprendente poi l’affermazione, fatta sempre all’ombra di Merkel che non sappiamo se più arrogante o idiota (con tutto il rispetto per la figura mito-poietica dell’idiota): «Appena avremo finito di parlare della Grecia bisogna parlare dell’economia europea». Come se la Grecia non fosse Europa. Come se l’esplosione della crisi greca non rendesse evidente che l’Unione è ormai ridotta solo ad una moneta amministrata dai paesi più forti.

Intanto la crisi di Atene chiama in causa subito altri Paesi passati già sotto i diktat della troika come Portogallo e Spagna. E immune non è l’Italia che vanta, per bocca dei colonnelli renziani, di avere fatto «riforme» sulla pelle dei lavoratori e sfotte le cosiddette «minipensioni» greche: dimentica che anche il governo Renzi propone i prepensionamenti e che oggi in Grecia, grazie alla cura dell’austerità della Troika accettata dal governo Samaras le pensioni sono state tagliate quasi della metà, come i salari: insomma sono diventate tutte minipensioni da fame.
Ultima, in ordine di arrivo, la telefonata di Obama (a tutti i leader europei).

Per l’informazione di Palazzo Chigi è stata su «Grecia, Libia e lotta al terrorismo». Le parole sono pietre: ecco che la crisi greca viene derubricata e inserita nell’agenda accanto al prossimo intervento militar-navale in Libia e alla lotta allo Stato islamico. La verità non velinara è che Obama è seriamente preoccupato che la Grecia, isolata a ovest, diventi un’Ucraina alla rovescia e possa rivolgersi alla Russia e alla Cina (come ha cominciato a fare per ora solo economicamente); Obama ha compreso che anche con una deposizione da Bruxelles di Tsipras (se malauguratamente vincesse il sì, invece della svolta epocale per tutta l’Europa dell’augurabile vittoria del no) la crisi greca rimarrebbe sempre più aperta e dentro un precipizio politico e sociale.

Terreno fertile della destra estrema razzista, non solo di Alba Dorata, e della sua ricetta ipernazionalista e autoritaria come insegna il regime di Orbán in Ungheria, mentre il vento delle piccole patrie torna a spirare nel Vecchio continente.