Stasera la Piazza Grande accoglierà Jean Marie Straub (e il suo Sicilia!) a cui il festival ha dedicato il Pardo d’onore della settantesima edizione. Memorie di cinema e cinema al lavoro – la buona notizia è che «Fuori orario» ha acquistato «Kommunisten» lo manderà in onda nei prossimi mesi. Lui, Straub, vive ora a Rolle, sempre in Svizzera, dove abita anche Godard, una cittadina piccola, sul lago, in cui si sono ritrovati due grandi sguardi del cinema di tutti i tempi.
Intanto siamo quasi arrivati alla fine (sabato i premi) di un’edizione attraversata da molte cose (compresi diversi e non facili assestamenti tecnici), a cominciare dall’anniversario che ha riportato sugli schermi locarnesi una storia del festival in forma di storia del cinema; i titoli presentati nella sezione Histoire(s) du cinéma suggeriscono che nei decenni si è mantenuta l’attenzione a un cinema «in divenire», indipendente ma soprattutto precursore o segnale di un nuovo autore e di nuove tendenze – da Le sign du lion di Rohmer a Poison di Todd Haynes.

Lo stesso accade oggi il che non significa collezionare capolavori peró nelle diverse sezioni, concorso e Cineasti del presente e anche Signs of life c’erano molti titoli belli – Milla, Madame Hyde, As Boas Maneiras, Le Fort de fous – scommesse di un racconto del mondo e del cinema.
Did you Wonder Who Fired the Gun? è il nuovo lavoro di Travis Wilkerson (concorso), narratore di una storia americana la cui frontiera è la radice di un conflitto che ne attraversa cultura e identità. Provincia povera del sud, Alabama, piccoli centri svuotati, poveri, un orizzonte nostalgico. Da lì arriva la famiglia del regista, una vecchia fotografia lo mostra bimbo di nemmeno un anno in braccio a un tipo corpulento, il bisnonno S.E. Branch. Razzista feroce nel 1946 aveva ucciso un african american, Bill Spann, eppure nonostante l’accusa di omicidio non era finito in prigione. Perché? Il film di Wilkerson inizia da qui, da questa volontà di svelare un mistero, di mettere in chiaro le responsabilità di quell’uomo e di quel luogo da cui la madre del regista è andata via appena ha potuto e di restituire un’immagine alla vittima. «Volevo dare voce a un’assenza che corrisponde al vuoto di rappresentazione degli african american nella nostra storia, una sopraffazione che continua ancora oggi se pensiamo al numero di vittime nell’ultimo anno, la maggior parte uccisi dalla polizia» dice il regista.

Did You Wonder who Fired the Gun è costruito come un film saggio, un’investigazione che ha l’andamento di una ballata – a volte sono le uniche parole tra le quali rimane traccia di chi la Storia ufficiale ha cancellato – ma alla prima persona, con la voce dell’autore che nelle vicende familiari proietta la realtà del suo Paese. Cosa si nasconde in quel sud impoverito, pieno di silenzi e di minacce? Il passato remoto, la Guerra civile tornano nei riti dei gruppi razzisti, suprematisti, nazionalisti bianchi – come la zia di Wilkerson, la sorella maggiore della madre. Il presente è ancora armi, esclusione, paura, ricatti. Gli african american sono sepolti in tombe anonime, decenni fa, da quelle parti, a Selma, Rosa Parks lanciava la sua battaglia per i diritti civili delle comunità black, oggi quasi nessuno lo ricorda. Sono i posti dove cresce il Ku Klux Klan, c’è qualcosa di minaccioso nella frustrazione del «white power», nei boschi dove ci si allena a combattere.

Frammento dopo frammento, incontro dopo incontro, dialoghi familiari, ricordi di battaglie per l’eguaglianza, minacce, reticenze, Wilkerson nella mancanza che la sua «inchiesta» non riuscirà a colmare – non sapremo mai cosa è accaduto né dove sia finita la famiglia della vittima – tratteggia con precisione un paesaggio americano lo stesso che è facile immaginare si è acceso per Trump (forse persino moderato). Passato e presente sembrano oscillare senza interruzione in una sorta di continuità, nell’impossibile racconto collettivo ciascuno ha la sua visione proprio come per l’omicidio commesso dal bisnonno. Non ci sono eroi né finali rassicuranti, Wilkerson che inizia il film con alcuni fotogrammi virati in rosso di Il buio oltre la siepe avverte subito lo spettatore: quella era una narrazione liberal, la sua è radicale perciò nessun buono a sopire le coscienze e a ricomporre le fratture, vale l’interrogativo, la risposta spetta a noi.

Lo stesso vale per Dragonfly Eyes di Xu Bing (concorso), il cui dispositivo lo rende uno dei film più spiazzanti visti in questi giorni. Il regista ha infatti costruito la narrazione con i materiali delle telecamere di sorveglianza e degli streaming che prendono la forma di una storia d’amore impossibile, tra due giovani alla ricerca di se stessi, ma soprattutto di una implacabile rappresentazione della realtà cinese contemporanea che nel passaggio tra reale e virtuale somiglia al resto del mondo.
Qing Ting, la ragazza, ha lasciato il monastero buddista dove studiava ma rispetto al mondo appare inadeguata. Il ragazzo, Ke Fan, vuole occuparsi di lei ma finisce per perdersi. Il «set»intorno (una sorta di Truman Show) registra arroganza, corruzione, potere dei soldi, fashion di facce tutte uguali (il trionfo del lifting), star della rete che non esistono. Lei si rifà il viso per avere successo, lui diventa lei. Nello slittamento tra vero e falso, continuo e non delimitabile, come il rapporto tra pubblico e privato nella rete, il primo iNterrogativo che pone il film riguarda la natura dell’immagine stessa, quell’ambivalenza che la caratterizza oggi più che mai e che impone di riposizionare il punto di vista. Tutto è reale, tutto è falso e viceversa chiosa il monaco nel finale. Il «romanzo» della realtà deve ricominciare da qui.