Accolta già domenica da Lega e Forza Italia, la proposta di Enrico Letta, un tavolo dei leader di maggioranza con Draghi per «blindare la manovra», non convince il premier. Palazzo Chigi fa trapelare la convinzione che le intese vadano cercate in parlamento e fa sapere che non c’è alcuna convocazione in vista. La freddezza di Draghi non stupisce: apparecchiare quel tavolo significa aprire le porte alle richieste dei partiti, obbliga a mediazioni. Tutte cose che da quando si è insediato a palazzo Chigi il premier evita come un virus. Già ha di fronte il problema delle forze sociali, a partire dai sindacati che incontrerà oggi ma senza che siano spuntati punti di intesa sul nodo delle pensioni. Tiepido anche Conte, che ancora ieri sera non aveva risposto all’appello, e a dir poco irritata Giorgia Meloni, che a sorpresa ha discusso ieri la situazione per oltre un’ora con Salvini. Al centro del colloquio, quasi certamente, il concreto rischio che un’intesa di maggioranza non solo sulla manovra ma poi anche sull’elezione del prossimo capo dello Stato allontani il voto nel 2022. Proprio l’accordo sul Colle e contro il voto anticipato è in effetti l’obiettivo principale di Letta.

IL LEADER DEL PD è ovviamente contento dell’adesione al suo invito della destra di maggioranza. La capogruppo Pd al Senato Malpezzi ne precisa la dinamica: prima dovrebbero incontrarsi i capigruppo, i leader interverrebbero in un secondo momento, per sciogliere i nodi irrisolti. Così, giubila Letta, la legge di bilancio verrà «approvata nel modo più rapido e migliore possibile». In realtà la sua mossa ha altre e ambizioni. Prima di tutto quella di creare il clima adatto per riunire lo stesso tavolo in gennaio, col Quirinale per pietanza, ed eleggere così tutti insieme il nuovo presidente. Ma anche restituire un po’ di spazio ai partiti costretti a incidere pochissimo sulle scelte del governo e indirizzare i fondi stanziati dalla manovra per la riforma fiscale.

LA VERA LINEA del fuoco dello scontro sulla manovra è quella. Non si tratta di un conflitto interno alla maggioranza ma tra questa e il governo, o più precisamente con l’anello di tecnici più vicini a Draghi come Giavazzi che mirano a usare gli 8 miliardi per la riforma fiscale esclusivamente a favore delle aziende: taglio dell’Irpef solo per i redditi più alti e dell’Irap. I partiti, da LeU ai 5S, dal Pd alla Lega, vogliono che invece il taglio restituisca liquido ai lavoratori, dunque con il taglio dell’Irpef, ma probabilmente accetterebbero anche quella «mediazione» che sarebbe un intervento sul cuneo fiscale. Su una cosa sola tutti sono d’accordo, governo e partiti: i tagli vanno concentrati su una voce unica, altrimenti tutti sarebbero salomonicamente contenti sulla carta ma la riforma non servirebbe a nulla.

L’ESSENZA DELLA PROPOSTA Letta, il suo significato principale e l’obiettivo eminente, riguarda però la partita del Quirinale. Se Draghi, come tutti danno ormai per certo, vorrà traslocare da palazzo Chigi al Colle il nome sul tavolo sarà senza dubbio il suo: candidato «di tutti» più indicato non ci sarebbe e la stessa Ue non sarebbe affatto scontenta di contare sull’ex presidente della Bce non solo fino al 2023, nella migliore e tutt’altro che certa delle ipotesi, ma per 7 anni. L’ostacolo sta nel fatto che contestualmente all’accordo su Draghi dovrebbe essere stretto anche quello sul nome del suo successore, perché per tutti, incluso Salvini che pure deve per forza negare, il voto nel 2022 deve essere evitato. È possibile che la precipitazione verso il voto anticipato si riveli inarrestabile. Lo sfilacciamento tra i partiti della maggioranza è tale che nessuno potrebbe scommettere a colpo sicuro sulla sua tenuta nemmeno se Draghi restasse alla guida dell’esecutivo, e a maggior ragione con un nome meno autorevole al suo posto. Ma la ragion d’essere dell’accordo sarebbe proprio fare il possibile per arrivare al 2023.

SE IL TAVOLO di maggioranza vedrà davvero la luce e se non verrà ribaltato dai duelli tra i partiti, come quello sulla Flat Tax reclamata da Salvini, si tratterà comunque di un passo importante verso una presidenza della Repubblica condivisa, cioè verso Draghi capo dello Stato. Con una incognita il cui controllo non è nelle mani dei leader: nessuno sa quale sarà lo stato della pandemia in gennaio e le previsioni non sono rosee. Per Draghi il vero ostacolo potrebbe arrivare non dai partiti ma dai contagi.