Non sono solo «sdraiati» gli adolescenti, muti e impenetrabili. Fra loro, c’è anche chi fa gesti altamente comunicativi, come quello di alzare la mano a paletta per dire alla madre – o a qualsiasi adulto interferisca con un eterno idillio tecnologico – «smamma». Un segno di vita come un altro. C’è di che esserne felici, significa non essere diventati d’improvviso genitori invisibili. Non lo è tantissimo (contenta) però l’autrice del libro che da quella parola prende il titolo – Smamma, appunto (Einaudi, pp. 233, euro 17).

Valentina Diana, attrice e drammaturga, di fronte a un (d’invenzione o vero?) figlio imprendibile – anche dal punto di vista ideologico – prima si lancia in nostalgici panegirici del profumo di borotalco sulla pancia del suo ex bambino, poi si arma di ragionevolezza per controbattere alle implacabili conclusioni di un ragazzo ebreo (sempre suo figlio) che pensa che il Giorno della Memoria sia roba da sfigati, infine cerca di ammansire l’alieno che ha di fronte con costumini improbabili acquistati a prezzi fantascientifici da Abercrombie. E si piega a pratiche di devozione in disuso, accendendo un cero affinché il suo pupillo vada bene all’interrogazione su Temistocle di cui a malapena – lo studente – conosce il nome e, del resto, se ne infischia bellamente.

Alla fine, capitola. O meglio, reagisce con umorismo e savoir faire. Perché lei, la mamma che «smamma» parte svantaggiata rispetto a un Michele Serra, per esempio, che deve vedersela a tu per tu con l’adolescente di casa. Lei di maschi Peter Pan, che gironzolano per le stanze in disordine, ne ha ben due. Una battaglia impari. Certo, uno – Gi, il fumettista e inchiostratore – l’ha scelto come nuovo compagno, anzi marito imminente, anche se passa gran parte del tempo chiuso da qualche parte a grugnire mentre gioca a Ruzzle. Per fortuna, ogni tanto si riscatta con qualche bel gesto, tipo fare la spesa e comprare una piantina di basilico fresco (o forse ogm) che comunque diventa il feticcio del ragazzo scontroso.

Lei, in fondo, quell’altro – lui, suo figlio – lo ama e l’ha amato da quando è nato, nonostante l’umiliazione che prova ogni volta che entra in sala professori e tenta di giustificare quei maledetti «due» in molte materie. O l’angoscia di sentirlo asserire senza tentennamenti teorie razziste e omofobe. Mettici poi anche la frustrazione di doversi trovare a sperimentare un certo Manuale tedesco di educazione in sedute assembleari con altri genitori perfettini, con prole altrettanto bionica (solo nelle performance scolastiche però, dato che l’età ingrata sfodererà le sue sorprese identitarie).

Una madre non si arrende mai. Ecco allora la stipula disperata di un contratto di «buon comportamento: fra le regole, evitare lo sterminio tossico delle formiche di casa. Non andrà tutto proprio liscio. Non sempre c’è il lieto fine. Ma nemmeno quello tragico perché un giorno l’adolescenza passerà.

 

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