Sul manifesto del 26 gennaio scorso Giangiacomo Migone ha opportunamente ricordato come la strage di Capaci, trent’anni fa, fu determinante nell’elezione al Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro. Ovviamente, le circostanze sono molto diverse, ma anche oggi il sistema politico pare stremato e avvitato su sé se stesso mentre tra pandemia, crisi ucraina, e il rischio di una crisi sociale sono ben tre le emergenze che fanno da drammatico contesto all’elezione in corso.

Non so dire se ciò porterà come allora a un salto di consapevolezza e responsabilità. Però ricordare quei giorni può essere utile per comprendere il rischio che si corre quanto la politica e le istituzioni non sono in grado di trovare una risposta democratica all’emergenza.

Arrivai a Palermo quasi direttamente dai palazzi del potere romano dove, insieme ad altri colleghi, seguivo per il manifesto le votazioni per il nuovo capo dello stato che si avvitavano su sé stesse senza via d’uscita, dopo la trombatura di Giulio Andreotti tra le cui gambe era stato gettato, nel marzo di quello stesso anno, il cadavere del suo plenipotenziario in Sicilia, Salvo Lima, garante del patto tra la politica e Cosa Nostra.

Mentre vado sul luogo della strage di Capaci incrocio in senso opposto il corteo presidenziale che sta riportando a Roma il vicecapo dello Stato, Giovanni Spadolini, che si lascia alle spalle la Beirut italiana e torna nei Palazzi in disfacimento. In quanto presidente del senato è capo dello stato supplente perché Francesco Cossiga si è dimesso prima del tempo, lanciando una bomba lacerante: è tutto un sistema politico che sta cadendo sotto i colpi di Tangentopoli e la mafia sta perdendo i suoi vecchi punti di riferimento e ne cerca di nuovi.

L’odore, lì a Capaci, è quello ferrigno della morte, della polvere rossa che il vento di scirocco trascina con sé nell’aria che sa di esplosivo, di catrame ancora caldo. Per terra, pezzi di tela militare sbattuti dal vento, due mazzi di fiori di campo poggiati su un cumulo di terra.

Per duecento metri l’autostrada non esiste più, è stata cancellata, spazzata via. Ecco il grande cratere di terra rossa: qui sotto c’erano mille chili di tritolo, una potenza micidiale che ha sollevato l’asfalto che ora se ne sta ingobbito, dilaniato da quella forza devastante sprigionata dal suo stesso ventre.

La macchina sulla quale viaggiavano Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, è ferma sul ciglio del cratere, con il muso stritolato dalla furia del primo impatto, tutti i suoi congegni elettronici sono lì sventrati, oscenamente esposti. Poco più dietro, un’altra macchina della scorta messa di traverso e più in là un’altra ancora che sembra come schiacciata da una mano potente che scende dall’alto.

Ecco. così sono morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonino Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo.

Un cronista di Radiomontecarlo mi dice solo quattro parole :”It’s a war”.

Scrivevo allora, cercando di spiegare perché, dopo aver ucciso l’uomo del legame tra politica e mafia, Salvo Lima, Cosa Nostra avesse alzato il tiro sul suo nemico giurato: “Un atto di terrorismo mafioso…l’hanno fatto mentre il Palazzo viveva un passaggio delicatissimo: un’elezione presidenziale nel corso della quale si ridisegna l’equilibro del potere. Non c’è bisogno di pensare a complotti a trame oscure. Purtroppo è tutto tragicamente chiaro: un pezzo d’Italia che è Colombia e Libano. Con i piedi ben piantati qui, il potere mafioso alza la tesa e guarda in alto, alla ricerca del suo posto tra i poteri, oligarchia armata che vive del deficit di democrazia e a sua volta lo alimenta”.

Attraversando Palermo, tra l’odore delle stigghiole arrostite per strada e le ceste di pane, leggo su qualche rudimentale cartello la scritta “Falcone sei vivo ”.

Io c’ero, posso raccontare il dolore attonito di una città che poi si farà rabbia all’apparire dei vertici istituzionali, le lacrime che si confondevano con la pioggia.

Paolo Borsellino, che sarebbe stato assassinato poco dopo, era una maschera da tragedia greca avvolta in una perenne nuvola di fumo.

Il 25 maggio, due giorni dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, le camere eleggono presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un democristiano moderato, cattolicissimo (tanto da aver schiaffeggiato negli anni ’50 in un ristorante romano una signora che mostrava le spalle troppo scoperte) ma fuori dai giochi di potere.

Qualche tempo prima, lo avevo intervistato per il manifesto, scherzando anche su questo suo passato. A conferma dei paradossi di quella stagione fu proposto da due outsider della politica che sembravano il suo opposto: Marco Pannella, leader dei radicali e anticlericale per eccellenza e Leoluca Orlando, figlio ribelle della sinistra dc che aveva da poco fondato la Rete, e poi divenne, durante la sua presidenza, il principale avversario dell’ascesa politica di Silvio Berlusconi, e un’icona della sinistra.