La radicalità evangelica del magistero di Papa Francesco è, in tutta evidenza, il contrario di una deriva integralistica o mistica. E, nel contempo, a differenza da ciò che lamenta l’ala tradizionalista del cattolicesimo, non ha alcuna soggezione verso le seduzioni della secolarizzazione.

Le sue parole vanno diritte al cuore delle cose ed esibiscono fastidio per gli eufemismi che spesso le cose le manipolano o le anestetizzano.

Quella radicalità coglie la radice dei mali del secolo e non usa la fede come «ammortizzatore sociale». Anzi.

Nelle sontuose sale vaticane o nelle polverose periferie del pianeta, la «buona novella» che il pontefice annuncia non è una sublimazione mistica delle cattive notizie che dicono della miseria di un’epoca di guerra globale, una guerra che si presenta persino in forme pulviscolari: la guerra come terrore industriale o come artigianato dei «lupi solitari», la guerra alla bio-sfera nel nome della mercificazione di tutto il vivente, la guerra sociale contro il lavoro e i suoi diritti, la guerra degli uomini contro le donne, la guerra dei più ricchi contro i più poveri, la guerra e i suoi derivati culturali che elevano muri e partoriscono paure individuali e fobie collettive.

La radicalità di Bergoglio a me appare tutta giocata sul terreno del discernimento e dell’analisi anti-retorica della malattia sociale e antropologica che affligge la nostra post-modernità, a partire dall’Occidente: la disumanizzazione della vita, alienata e desacralizzata in nome della religione del profitto economico, ridotta a oggetto di veloce consumo, spesso considerata scarto o eccedenza da chi non vede il volto delle persone al di là delle asettiche statistiche con cui ci raccontiamo o con cui ci nascondiamo.

Colpisce la vividezza dell’affresco con cui, nei discorsi ai movimenti popolari, il Papa «venuto dalla fine del mondo» racconta il vivere concreto, amaro, spoglio, degli poveri: a cui non offre consolazione, bensì esortazione alla lotta, direi alla resilienza; colpisce la precisione puntigliosa con cui evoca ciascun tassello del mosaico, ciascun soggetto sociale, non riducendolo mai a mera sociologia, a oggetto di studio o di terapie riparative.

Il suo incontro con gli «ultimi» diviene scontro con i «primi», ovvero conflitto aperto con quelle gerarchie socio-economiche che presentano la diseguaglianza come natura e che, nel migliore dei casi, prevedono «politiche sociali» di contenimento neo-caritatevole della povertà.

Ed è non generica la povertà di cui parla e per la quale non chiede l’elemosina. È quel non avere né tetto né legge dei migranti, oggi rappresentati e repressi come disturbatori della quiete pubblica o propagatori di malattie o competitori nel mercato del lavoro servile.

È il non aver casa, ancora oggi mentre cerchiamo alloggi su Marte, proprio come accadde a quella coppia che trovò riparo in una grotta per dare alla luce un bambino, prima di migrare da rifugiati in un Paese lontano.

È il non avere terra da coltivare, non poter essere biblici «custodi del creato», perché la terra è bruciata dai pesticidi e dalla mutazione climatica e dalla violenza predatoria delle grandi multinazionali.

È il non avere lavoro, o avere un lavoro precario o saltuario, senza reddito decente, senza tutela sindacale, senza rispetto della dignità e del singolare talento di ciascun essere umano.

Quanto distante questo «magistero del lavoro» dalle chiacchiere moderniste sulla flessibilità che alimenterebbe lo sviluppo economico e che invece semplicemente flette e spezza la carne e l’anima delle persone, che differenza con gli anglicismi con cui il lavoro viene parcellizzato, umiliato, svuotato di senso e ridotto a merce o a osso di seppia, che alterità rispetto all’emergenzialismo dei piani di assistenza che distribuiscono briciole di lavoro che è sempre una grande fatica ma non è mai un vero lavoro, quello che offre «la vera inclusione»: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, solidale e partecipe», come scandisce il Papa in uno dei suoi discorsi più belli.

In questa prospettiva la «conversione ecologica» che annuncia Bergoglio – che volle non a caso chiamarsi col nome del poverello di Assisi – è propedeutica a un modo di produzione che ha l’ambizione di capovolgere la piramide sociale che ci schiaccia: affinché non si estragga ricchezza dalla povertà, ovvero dall’impoverimento della natura, della cultura, della bellezza, dei diritti, della vita e delle sue prerogative.

Questa a me appare la grande profezia di Bergoglio: non la fuga dalla storia, ma la ricerca nella storia umana di quel filo rosso che lega il dolore alla salvezza, la demistificazione del male e della sua banalità, ma anche la costante indicazione del varco che lascia intravvedere la luce del bene.

Questo fanno i profeti: dicono la verità, la gridano anche quando è scomoda e rischiosa, la rappresentano dinanzi al popolo, non sono Cassandre che spingono alla rassegnazione o alla depressione, ma sono testimoni di una verità che esorta all’azione, all’assunzione di responsabilità, a diventare «seminatori di cambiamento».

E qui i poveri non sono solo vittime, ma sono anche protagonisti del possibile riscatto di tutti: perché possono insegnarci l’economia del riuso e del riciclo contro quella del consumismo onnivoro e degli scarti, perché i lavoratori poveri, che sono contadini o artigiani o manovali o pescatori o trasportatori o venditori ambulanti o cartoneros, sono portatori di un bisogno universale di salvezza del mondo, per andare oltre quella dittatura del presente che colonizza i popoli, atomizza gli individui, rompe i legami sociali, disobbedisce al Dio che danza la vita, al Dio che non ci chiede di essere reclute del clericalismo ma sentinelle che scrutano la notte in attesa di una nuova alba.

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Dal 5 ottobre, in edicola con il manifesto «Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco. Un libro edito da Ponte alle Grazie curato da una delle nostre firme Alessandro Santagata. Introduzione di Gianni La Bella.