In nessuno dei paesi della Ue l’arrivo del Recovery Fund è atteso con tanta trepidazione come nel nostro e in nessuno di essi ci si aspettano risultati tanto salvifici. Da quando poi a Roma c’è un re taumaturgo a guidarci, le speranze sono ancora cresciute.

Viene in mente l’arrivo del dottor Dulcamara con la sua magica pozione ne “L’elisir d’amore” di Donizetti. “…Ei muove i paralitici, spedisce gli apopletici, gli asmatici, gli asfitici, gli isterici, i diabetici, guarisce timpanitidi, e scrofole e rachitidi, e fino il mal di fegato che in moda diventò…”.

Brecht ha scritto una poesia dal titolo “Lode del dubbio” e, anche partendo da tale fonte, ci permettiamo di sollevare delle perplessità su tutta la costruzione, perplessità che speriamo siano fugate dai fatti. Ma non siamo soli in questo esercizio; facciamo ad esempio riferimento ad un articolo di Martin Sandbu sul Financial Times del 14 marzo, ad un’intervista a Jean Paul Fitoussi su Il Fatto Quotidiano del 15 marzo, nonché ad una lettera di Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo apparsa sempre sul Financial Times del 12 febbraio.

L’importo del Fondo è di 672,5 miliardi, di cui 312,5 di sussidi e 360,0 di prestiti; se si aggiungono degli stanziamenti minori si arriva ad un totale di 750,0 miliardi, di cui 390,0 di sovvenzioni. A noi toccheranno, sembra, 191,5 miliardi sul Fondo e 205,0 in totale.
Ora, come sottolinea Fitoussi, l’Europa spende così tre/quattro volte meno degli Usa, avendo per di più questi ultimi meno abitanti dell’Europa; e Fitoussi non considera gli ulteriori 2.000 miliardi di dollari che dovrebbero essere stanziati in Usa per le infrastrutture. Egli sottolinea come l’Europa sia lenta, poco reattiva e poco generosa.

L’articolo di Sandbu parte dalla constatazione che i paesi occidentali, in un processo inevitabile, continuano a perdere posizioni economiche rispetto a quelli emergenti, con in testa la Cina. Ma con gli stanziamenti in atto, afferma Sandbu, gli Usa ritardano un poco il loro declino relativo, mentre i deboli impegni europei accelerano la marginalizzazione economica del continente. Infine, la lettera dei due economisti sottolinea che, considerando anche le somme che i vari paesi devono versare alla Ue per alimentare il Fondo, le risorse nette che essi riceveranno saranno nettamente inferiori a quelle sopra indicate.

All’Italia, al lordo dei versamenti dovuti alla Ue, spettano circa 15 miliardi all’anno a fondo perduto per cinque anni. Certamente graditi, ma pochi rispetto alle nostre necessità. Peraltro, giacciono bloccati dalla nostra burocrazia stanziamenti nazionali per importi ancora più rilevanti. Per i soldi a prestito, sembra che sino ad oggi solo quattro paesi vorranno farlo. Potremmo sempre rivolgerci al mercato, anche se a tassi di interesse un poco più elevati e, d’altro canto, vista la nostra esposizione debitoria, non ci converrebbe chiederli tutti.

Questi soldi arriveranno tardi. Incasseremo forse i primi importi tra qualche mese, mentre gli altri arriveranno nell’arco di cinque anni. Anche in questo caso il confronto con gli Usa appare impietoso. Peraltro il Fondo deve ancora ricevere il via finale da parte di tutti i 27 paesi ed emerge qua e là (c’è in questi giorni il caso della Polonia) qualche problema.

Sperando di essere smentiti dai fatti, si può poi essere piuttosto timorosi sull’utilizzo finale dei fondi, almeno per due ragioni. Intanto abbiamo già espresso su queste colonne il timore che, visto anche lo stato della nostra amministrazione, non si riuscirà a spenderli interamente, essi lo saranno poi con molti ritardi, i costi dei singoli progetti lieviteranno di molte volte, si scopriranno estesi fenomeni di corruzione, criminalità, infiltrazioni mafiose, ecc… . Bisogna poi considerare con quale orizzonte “culturale” verranno gestiti, pensando a persone come Colao, Cingolani, Franco, Giavazzi, Sileoni (con contorno di McKinsey), anche se si tratta di individui certamente degni sul piano personale.

Qualche problema potrebbe venire dalla richiesta di Bruxelles che, in contropartita dei soldi, i vari paesi facciano le necessarie “riforme”. La sola parola suscita ricordi angosciosi: si chiederanno forse anche tagli ai diritti, ai salari e alle pensioni?

Il progetto potrebbe comunque avere qualche senso se, al di là dei soldi, esso riuscisse a mobilitare il paese verso la messa a punto di obiettivi di trasformazione, se diventasse cioè un punto di coagulo per il ripensamento delle linee di sviluppo dell’economia italiana.

Cosa che difficilmente avverrà. Certo, a fronte di tutti i nostri dubbi, bisogna considerare che Draghi non può permettersi di fallire del tutto sulla partita e qualcosa dovrà certamente riuscire a fare, ma, ciononostante, temiamo che il progetto alla fine lascerà l’Italia più o meno come l’avrà trovata. Speriamo comunque di no.