Con Quello che non c’è (nottetempo, pp. 254, euro 16, traduzione di Marzena Borejczuk) il giornalista e scrittore polacco Mariusz Szczygieł – molto noto nel suo paese e oggetto anche in Italia di un culto sotterraneo presso i lettori dei precedenti Gottland, Reality e Fatti il tuo paradiso – si avventura in un territorio rischioso. Dietro l’etichetta vaga del titolo, infatti, troviamo la morte, la perdita, l’assenza – temi da cui di solito si rifugge e che tuttavia, mai come in questi mesi, scopriamo essere al centro della nostra esistenza. Nelle sue «quindici storie vere» (questo il sottotitolo) Szczygieł alterna momenti di vita familiare e reportage – tra gli altri, un incontro con la poetessa ceca Viola Fischerovà e l’avvincente ricostruzione delle sorti della famiglia Müller, proprietaria della splendida villa praghese realizzata nel 1928 da Adolf Loos – cercando sempre di dare forma a «quello non c’è». Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Rispetto ai suoi libri precedenti in «Quello che non c’è» la componente personale è più marcata: diverse storie sembrano appartenere più al genere del memoir che al reportage. Può dirci com’è nata la raccolta?
Il mio amico più caro, un giovane con due lauree in economia, ripeteva spesso che avrebbe avuto una vita breve. Aveva 19 anni meno di me. A volte gli dicevo per scherzo che avrebbe dovuto tenermi la mano sul mio letto di morte e lui ribatteva: «Toglitelo dalla testa, morirò prima». Un giorno mi suggerì di scrivere un libro su quello che «non c’è». Per quanto sembri paradossale, tutti abbiamo un «non c’è», diceva. Iniziai a raccogliere materiale, ma quel libro non era nelle mie corde. A quel tempo ero il re della vita: ogni settimana comparivo in televisione, i miei libri vendevano benissimo. Ma quale «non c’è»? Dove sarebbe mai? Il mio amico è morto d’infarto a 29 anni. Quattro anni dopo è uscito Quello che non c’è.

Il filo conduttore del libro è appunto il «non c’è» – la mancanza, la morte. La percezione individuale e collettiva di questi concetti oggi è cambiata? La pandemia ci ha avvicinato alla fine annunciata di cui lei scrive con ironia dolorosa?
Per come la vedo io, «non c’è» è una condizione permanente, il fulcro della nostra vita, mentre «c’è» è un accidente occasionale. La pandemia lo rivela. È fantastico che si sia verificata, credo sia la cosa migliore che ci potesse capitare. La nostra superbia è stata stroncata. La consapevolezza di essere mortali cambia il modo di concepire la vita. Qualcuno ha detto che la pandemia è una sconfitta dell’umanità. Benissimo, la sconfitta è una notizia, è un messaggio! Quello che ne faremo, sta a ognuno di noi.

«Ogni cosa deve avere una sua forma e un suo ritmo, soprattutto l’assenza», ha detto la grande giornalista Hanna Krall evocata nel suo libro. Come interpreta questa frase?
Credo che possiamo venire a patti con il «non c’è» o con «l’assenza» nella nostra vita solo dando loro forma. La poetessa ceca Viola Fischerovà ha convertito il suo «non c’è» in versi. Il suicidio del marito ha fatto zampillare il suo talento. Poco prima di compiere sessant’anni è diventata una delle più grandi poetesse ceche. Se non ci fosse stata quella morte, non ci sarebbe stata la poetessa.

I suoi libri sono radicati in quella che siamo soliti definire l’Europa dell’Est. Restano ancora oggi tratti che caratterizzano questi paesi?
Noi polacchi, e pure i cechi, preferiamo chiamarla Europa Centrale. L’Europa dell’Est per noi è la Russia, come prima lo era l’Unione Sovietica che ci aveva risucchiati. Sentivamo di appartenere culturalmente all’Occidente, ma politicamente eravamo stati sequestrati dall’Oriente. Ancora anni dopo la caduta del comunismo avvenuta nel 1989 nei ristoranti polacchi e cechi tutti parlavano sottovoce per non farsi sentire dai commensali ai tavoli vicini. Ricordo di come negli anni ’90 la mia migliore amica, la slavista Federica Della Casa Marchi, fosse stupita dal silenzio nei ristoranti di Varsavia. Era la conseguenza del comunismo, e pure dell’epoca delle spartizioni, cioè dei centoventi anni in cui i polacchi non avevano uno stato. Qualcuno poteva origliare, sentire che stavamo congiurando, e allora era meglio tenere la voce bassa. Oggi non più, il cicaleccio nei nostri ristoranti è uguale a quello italiano. Francamente lo detesto. Siamo sempre più simili gli uni agli altri.

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Quanto è viva la memoria, soprattutto presso i giovani, della presenza sovietica? Storie come «Leggendo le pareti» e «La star di tutte le ville» ci raccontano un altro mondo?
Penso che la consapevolezza sia limitata. Tutte le storie riguardanti il passato comunista che si trovano nei miei libri, in Gottland o in Quello che non c’è, piacciono ai giovani. Per loro sono una scoperta, ma credo contengano anche un insegnamento universale: un sistema, ogni sistema, è sempre fonte di sofferenza.

In una storia che ruota intorno alle foto da lei scattate (o non scattate) a New York, lei usa il termine «appropriazione» a proposito delle immagini. Quanto conta per lei la dimensione visiva?
Sono un appassionato d’arte, in particolare di pittura e fotografia, e tengo molto alle copertine dei miei libri: non voglio siano casuali. Per dire, sulla copertina italiana di Quello che non c’è, come in quella polacca, c’è un dettaglio del quadro Paracadutisti del pittore polacco Michał Mroczka. Ho contemplato questa tela a lungo, perché era appoggiata alla mia libreria, finché mi sono reso conto che i paracadutisti che raffigura, prima ancora di toccare il suolo, si dissolvono. Non hanno ancora raggiunto il traguardo e quasi non ci sono più… Mi è tornato in mente un saggio di un’intellettuale polacca, Maria Janion: Vivendo, perdiamo la vita. Ho capito allora che quel quadro doveva trovarsi sulla copertina del mio libro.

Non crede però che anche le parole siano uno strumento di appropriazione?
Lo sono eccome, le parole più di tutto. Non a caso lo stesso oggetto si può definire un quadro, uno scarabocchio, un capolavoro, una tela, un olio, una crosta. Ogni volta chi ascolta si farà un’idea diversa di quel dipinto. «Qualsiasi parola di qualsiasi pagina di qualsiasi libro, e il mondo subito esiste», ha scritto Edmond Jabès, poeta ebreo nato in Egitto – come a dire che le parole costruiscono un mondo nella nostra testa. Da reporter e scrittore ne sono consapevole e uso le parole con la massima attenzione. Ma sorge un’altra questione. In Quello che non c’è ho descritto la vita della famiglia Müller di Praga. Possedevano la casa più all’avanguardia in Cecoslovacchia tra le due guerre. Nessuno ne aveva scritto prima. Qualcuno aveva raccontato la villa, le sue meraviglie, ma nessuno si era preso la briga di guardare alla famiglia che la abitava e a cui il regime comunista aveva portato via, nel 1948, l’abitazione privata insieme ai mobili e alle opere d’arte, trasformando l’edificio nella sede dell’Istituto marxista-leninista. La proprietaria, Milada Mullerovà, ne era diventata la donna delle pulizie e poteva vedere la sua casa solo negli orari d’ufficio. Questa figura mi incuriosiva. Ho rintracciato chi l’aveva conosciuta, ho cercato a lungo sua nipote e infine l’ho trovata a Roma. Ognuno mi ha raccontato qualcosa di lei. Io ho usato i frammenti che mi sono sembrati più importanti, li ho resi con le parole per me appropriate, non so con quanta pertinenza rispetto alla verità della signora Mullerova. Insomma, ho colonizzato la sua storia. E per un bel po’ di anni sarà così: la proprietaria della più famosa villa cecoslovacca verrà vista come l’ha dipinta Mariusz Szczygieł. La letteratura, diceva Kapuscinski, è la versione data da una persona su un determinato argomento – soprattutto la letteratura non-fiction.

Il giornalismo cambia, la voce del giornalista testimone si stempera in mezzo a mille altre. Come vede il futuro della professione?
Il reportage è stato inventato per permettere a un essere umano di comprendere un altro: quando qualcuno per un’ora o due si cala nella vita della persona di cui sta leggendo, comincia a capirla e di conseguenza comincia a capire il suo mondo. Se vi accostate ai libri dei reporter polacchi Wojciech Jagielski o Wojciech Tochman, saprete di cosa sto parlando. C’è molta concorrenza, si sa, perché tutti dicono qualcosa, tutti parlano. E tuttavia anche adesso, per citare di nuovo Kapuscinski, «tutti sappiamo poco di tutto». Ragion per cui, secondo me, giornalisti e reporter continueranno a essere richiesti nella nostra società.
(Traduzione di Marzena Borejczuk)