Forse un disco così, La terza estate dell’amore di Cosmo, in Italia non c’è mai stato, o comunque è molto tempo che suoni di questo tipo; testi così ludici eppure penetranti, impegnati come solo il gioco può essere; e una tale mistione di generi modulata nel totale gioioso deliquio di riscoprirsi a respirare sul cuor della terra, in carne e ossa; è molto tempo che non si sentivano, che non nascevano nel panorama un po’ stantio – anzi proprio decrepito – del pop e dell’indie italiani.

CERTO, concentrandosi soprattutto sul precipitato elettronico, la mente va ai Subsonica e all’appendice dei Motel Connection, o ai Planet Funk, che tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo proposero in vario modo itinerari inediti per il nostro paese (il ballabile legato al cantabile, in ambiente sintetico) e in cui ad esempio Non Zero Sumness resta un capolavoro e Two soprattutto nella versione lunga, rappresenta una sorta di antifona notturna per le occasioni di ballo, una filigrana d’astri che si dipanava puntuale su ogni pista ti capitasse di calcare, tutta avvolta di penombra smagliante.

MA QUESTO DISCO di Cosmo suona davvero come qualcosa di nuovo, stratificato anche rispetto a quella stagione pur così straordinaria e di cui sembra raccogliere l’eredità. Vi confluiscono synth-pop, techno, house progressiva, cantautorato decostruito, ebbro, e finanche lacerti di trap che così finalmente acquista un qualche senso. La parola di Cosmo è situazionista, implicata nella vicenda estemporanea, vitale, rituale del ritmo: sfocia, al limite, in Fuori, in un divertentismo – ecolalia o lallazione che si fa progressione musicale – alla maniera di Prisencolinensinainciusol, che è una di quelle cose uniche nella storia della musica italiana, tanto da costituire poi la base per molti rifacimenti tra cui l’Alternative Remix del 2008 contenuto nell’Animale di Celentano. Fuori o Mango in cui si dice che «Badabango come mi ti bango/ tomoneidibango ghimilode mannono/ nonnoghe» ecc., ha quello spirito anarchico, libero, scanzonato e autocanzonatorio, che aveva avuto negli anni Settanta il capolavoro di Celentano: arti e articoli, parole e frasi – poi affidati a voci infantili, cori femminili – che molleggiano, si rammolliscono e s’ammollano nell’incedere del basso e delle percussioni.

C’È UNA PULIZIA totale in questi suoni a molla, a gomma, a lacca: La musica è illegale ne è dichiarazione di poetica se è vero che «sbatte la lamiera, scoppia la frontiera,/ esplodono le bombe ma nessuno muore». Nessuna cacofonia di tromba o di piano malamente sintetizzati e buttati lì nella mischia a fare fracasso, a riempire i silenzi fondamentali dell’elettronica («è musica no fabbrica» in Antipop), ma un’estrema levigatezza esercitata intorno a rif essenziali in synth, e bassi, e cassa: da Dum Dum, da un’apertura estatica sul cosmo, da efflorescenze turgide colano resine, pollini brucianti, fumanti, che si mischiano all’odore di sudore, di salive nel tramestio stroboscopico dei corpi sotto al palco.