Arianna è una ragazza irrequieta, un bel viso, gli occhi di ipnotico azzurro sembra a disagio con quel corpo che nasconde, con le tette che non vogliono crescere, con le mestruazioni che non arrivano, col dolore acuto che sente quando prova a fare l’amore.
La mamma minimizza, il padre la porta con sé a caccia, Arianna non ha paura di sparare al cinghiale, e sembra un ragazzo la notte insieme agli altri cacciatori.
Quando era piccola giocava con le macchinette, stanno ancora lì nel ripostiglio della vecchia casa sul lago dove ha passato la sua infanzia, ricordi sfumati, e poi i genitori non ci sono tornati più.

 

 

É diversa Arianna dalla cugina Celeste che ha il ragazzo, e con lui – l’ha “«già fatto», ha il seno grosso e quando balla sembra l’essenza più pura di ciò che si intende per «essere femmina».
Sorride, sembra non avere mai nessun imbarazzo, quando fa sesso col suo ragazzo lascia la porta aperta, e con dolcezza accarezza il seno della cugina: sono duri i tuoi capezzoli.
È strano che questo film, magnificamente sorretto dalla sua protagonista, Ondina Quadri, e da una squadra di attori superbi come Valentina Carnelutti, Massimo Popolizio, Corrado Sassi, Blu Yoshimi, parlando delle sfumature possibili e represse della sessualità e del gender rischi a sua volta di rimanere ingabbiato in un «genere»: quello cioè di un cinema italiano che ha bisogno di spiegare, chiudere, circoscrivere sottovalutando le possibilità narrative delle immagini.

 

 

E quando sembra avere trovato una sua libertà siamo al finale, bello ma soffocato da molte (troppe) spiegazioni. Eppure basterebbe poco perché nel suo esordio Carlo Lavagna, regista romano, cresciuto in Svezia e poi in America, autore di corti per la moda (Bulgari, Dolce&Gabbana) arriva a passaggi intensi e scanzonati, i dialoghi delle ragazze quando parlano tra di loro di sessualità, «veri», senza le forzature dimostrative che troppo spesso punteggiano le storie di adolescenza e i romanzi di formazione della vita.
Che questo è Arianna, un romanzo di formazione, o forse ancora meglio l’investigazione della protagonista sulle tracce della sua parte mancante, di quel pezzetto di sè fondamentale che i genitori hanno deciso di cancellare per sempre.

 

 

Non voglio fare spoiler ma ormai sul film ancor prima della sua proiezione veneziana si è detto molto, e soprattutto che si parla di un ermafrodita, creatura mitologica, né uomo nè donna (era uscito anni fa un bel libro di Eugenides sull’argomento) sospeso dunque sul bordo dell’ambiguo. Eppure questa non è soltanto la storia di un ermafrodita, la sua scommessa che è anche la sua cifra speciale è avventurarsi con pudore nella sessualità, nelle sue declinazioni e incertezze, in quello stato di ambivalenza che non è esclusivo appunto dell’ermafrodita ma è il segno di comune di una condizione che cultura, abitudini, schemi vogliono indirizzare a senso unico.

 

 

L’abbiamo fatto per te, dicono i genitori, perché quel doppio sesso sarebbe stato una condanna, una «mostruosità» o forse un eccesso di piacere, il territorio proibito di una sessualità multipla, sfuggente alle regole, e forse troppo anarchica per le convenzioni.
Ma ora in quel corpo reso a norma piacere, desiderio, accettzione quelle cose che di nuovo sembrano accantonate o date per scontate, escono fuori, gridano una loro voglia e un diritto a esistere. C’è tutto questo negli interrogativi a se stessa di Arianna, per lei ancora più dolorosi e confusi, ma il suo orizzonte è aperto, finalmente consapevole, privo di segreti e di rimossi. E tutto può ancora accadere.