Racconta Amos Gitai che nel suo «private kibbutz», il kibbutz personale, come chiama gli amici con cui condivide pensieri, vita, speranze, disillusioni qualche tempo fa erano tutti molto infelici per ciò che vedevano accadere nel loro paese, Israele. Razzismo, censura alla libertà di espressione, «l’unico teatro arabo nella mia città natale, Haifa, chiuso».

 

 

 

 

La sola alternativa a quello che è Israele oggi, « a questo potere» – come lo chiama il regista – è stata la politica di Rabin. Ma il primo ministro degli accordi di Oslo e della speranza di una pace finalmente tra israeliani e palestinesi è morto ormai più di vent’anni fa, il 4 novembre del 1995, ucciso da un ragazzo fanatico religioso. «Così come vuole la nostra tradizione ebraica ho deciso di mettermi a lavorare sulla memoria di questa esperienza, se non ci credessimo nella memoria non esisteremmo». Anni di ricerche, l’incontro con il presidente della Corte suprema a capo della commissione che ha condotto l’inchiesta sull’assassinio del premier, molte ore passate a guardare gli archivi della televisione pubblica ormai in liquidazione sono le fonti che Gitai ha utilizzato per Rabin the Last Day.

 

 

 

 

Ma il film man mano che il lavoro procedeva è diventato il primo capitolo di un progetto più ampio, che dallo schermo è sconfinato – come spesso accade col regista – in altro: un’installazione e nei prossimi mesi uno spettacolo teatrale, che andrà in scena a Avignone con Hanna Schygulla, Sarah Adler e Hiam Abbas in cui l’omicidio di Rabin sarà narrato dal punto di vista della vedova, Leah, morta anche lei nel 2000.

 

 

 

Chronicle of an assassination Foretold – «Cronaca di un assassinio annunciato» – l’installazione da oggi al Maxxi di Roma (fino al 5 giugno) riprende delle immagini del film per rispondere alla stessa necessità di interrogare il passato, e con esso il presente, che attraversa l’universo poetico del regista. Una memoria la sua che al mito oppone il movimento storico- i suoi magnifici piano sequenza – il confronto aperto alla demagogia, l’utopia nella lezione dei suoi genitori, il padre architetto del Bauhaus fuggito dall’Europa nazista, la madre Efratia, ribelle e insofferente, ragazza che credeva nella sfida di un paese «diverso» innamorata della poesia e della letteratura.

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E il cinema, l’arte sono per Gitai da sempre uno strumento con cui interrogare la realtà, e al tempo stesso anche le forme che utilizza: un allenamento e un corpo a corpo che negli anni continua a sorprendere se stesso.

 

 

 

Eccoci dunque in uno spazio quasi vuoto che sembra quello dell’omicidio a distanza di tempo. Lo divide un muro di legno, da una parte uno schermo con le immagini di Rabin e delle persone che lo sostengono, che credono in lui, nelle sue scelte politiche, le manifestazioni per la pace a Tel Aviv tra il ’94 e il 95. Dall’altra la piazza contro Rabin, le forze dell’estrema destra religiosa ma anche del Likud, dei politici come Netanyahu che ammiccano a questa violenza e la portano anche nei luoghi istituzionali. Urlano, lo insultano, lo condannano a morte, si scagliano con rabbia e disgusto contro la sua immagine. Rabin è un nazista, è una vergogna, ha tradito gli israeliani, deve morire.

 

 

 

Due diversi aspetti, due punti di vista sul mondo radicalmente opposti: dove sta oggi Israele?
L’istante dello sparo sono una folla che corre, il caos, l’angoscia, i gesti scomposti, qualcosa che è fuori controllo. La narrazione del momento della morte è affidata a delle fotografie. «Come sarebbe adesso il Medioriente se Rabin fosse andato avanti nel suo processo di pace?» si chiede Gitai.
Rispetto altri lavori in cui il suo cinema diventava lo spunto per una costruzione diversa, veniva messo alla prova con altri ritmi e gemoetrie della visione, stavolta Gitai si concentra su un unico soggetto: la morte di Rabin appunto. Non ci sono immagini o riferimenti ad altri film, altri racconti di Israele, l’Europa prima della guerra, i ricordi familiari che a questa storia si intrecciano con forza. C’è solo questo momento, questa cesura, una linea secca che pare all’improvviso cancellare tutto, il prima e il dopo.

 

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Gitai ci dice che quell’omicidio era già lì, scritto nella complicità tra la politica che voleva fermare la pace, gli interessi dominanti, e la spinta a cavalcare quella marea di odio sempre più feroce. Che l’origine della morte di Rabin è nella sostanza profonda di un paese, che si nutre del conflitto fino a essersi identificato con esso. «E se gli atti artistici sono anche forti … Non solo proiettili!!! (tre punti esclamativi in memoria dei tre proiettili che colpirono Rabin nel suo ultimo giorno» scrive il regista. Il trauma di quella morte può trovare un superamento solo ricomponendone il quadro per trasmetterne, appunto, la memoria e renderla viva, vitale, strumento di cambiamento non semplice disillusione.

 

 

C’è qualcosa di davvero commuovente in questo amore che Gitai distilla in ogni sua opera. Con cui mette in gioco zone sensibili della sua intimità, un dolore privato che non resta però mai tale, che si sposta sempre nello spazio collettivo. Gitai ci pone delle domande, sta a noi trovare le risposte. Lo spazio sul limite del muro, di quella «giustapposizione» appartiene al pensiero, e forse anche alla possibilità. È quello che la sua opera ha scelto per confrontarsi col mondo.