Lo spazio è in uno dei quartieri oggi più chic di Rotterdam, la zona intorno al vecchio porto e su un piccolo isolotto dove bar, ristoranti, hotel galleggianti si sono moltiplicati complice la molto suggestiva location acquatica. È qui che gli Zapruder, Nadia Ranocchi e Davide Zamagni, hanno installato Anubis is Not a Dog, un «cubo» sul quale sono proiettate – l’installazione è multi- canale – le immagini che «catturano» la relazione tra i cani degli Dog Show e i loro padroni; due corpi perfettamente sincronizzati, quasi in simbiosi, che si specchiano l’uno nell’altro. Le riprese sono state effettuate durante l’edizione 2020 di Arte Fiera a Bologna: lì le tre esibizioni si susseguivano nello Spazio Operai – con Lusy Imbergerova e Gloria Allasio entrambe insieme a una Border Collie, e Rita Ruberto con una cagnolina Jack Russell – mentre il pubblico guardava attraverso un vetro.

L’INSTALLAZIONE ritrova quel momento, pubblico di spalle compreso, ma tutto cambia per noi spettatori perché ciò che appunto vedevamo «a distanza» in una performance che era al tempo stesso il farsi di questo lavoro, lo possiamo guardare e sentire ravvicinato: i primi piani dei cagnolini, delle gambe e delle mani delle loro training, il battito sempre più accelerato del loro respiro e cuore (sono animali condannati a una vita più breve per la fatica) a causa dello sforzo, lo sguardo eccitato e attento con cui captano i comandi, suoni secchi ripetuti in uno schema di estrema precisione. Le due creature sono unite in questa trama di codici, un linguaggio solo a loro comprensibile di ritmo e interazione. Come trasformarli in immagine e rimodularne l’energia? È la scommessa degli artisti che entrano in quelle coreografie per coglierne il movimento più intimo, l’essere inquieto e affascinante di una fisicità.

Steve McQueen
Più che sul blackface volevo lavorare sulla rappresentazione dei neri e sul razzismo che è endemico come dimostra ciò che accade negli Usa Il Depot, il nuovo e meraviglioso museo cittadino aperto nel 2021, architettura su cui si rispecchiano cielo e paesaggio, ospita l’installazione di Steve McQueen (già proposta lo scorso marzo all’Hangar Bicocca di Milano nella personale a lui dedicata), Sunshine State, in cui l’artista lavora sui temi centrali nella sua ricerca, razzismo, immaginario, creazione dell’identità. Le immagini della Nasa di un sole sono insieme a quelle di The Jazz Singer (1927) con Al Jolson, che si finge un musicista nero tingendosi la faccia, primo film parlato (in Italia uscito come Il cantante di jazz) e grandissimo successo per la Warner – la regia è di Alan Crosland. Cosa li lega?

LA VOCE di McQueen che prende il posto dei dialoghi del film racconta del padre, quasi ucciso perché nero in un bar di bianchi durante la raccolta stagionale delle arance nella Florida degli anni Cinquanta – detta appunto Sunshine State. Il materiale del film – per avere i diritti ci sono voluti anni – passa intanto dal positivo al negativo dove i personaggi bianchi diventano neri mentre il protagonista con la sua «blackface» scompare nell’oscurità, per poi riapparire in frammenti.«Più che sul blackface ho lavorato su un’idea generale della storia del cinema rispetto alle rappresentazione dei neri, e soprattutto sul concetto del razzismo che rimane endemico come dimostra quanto continua a accadere in America» ha detto McQueen durante il talk organizzato dal festival, riferendosi a Tyre Nichols, il ragazzo african american pestato a morte dalla polizia che lo aveva fermato a Memphis.

La redazione consiglia:
Una geografia urbana di immagini a RotterdamLa violenza razziale è al centro anche del cortometraggio di Josè Cardoso, vincitore dell’Ammodo Tiger, What the Soil Remembers, in cui si ripercorrono i traumi di una comunità durante l’apartheid in Sudafrica. Cacciati dalle loro case e terre per costruire una nuova università, e segregati in una zona deserta, non hanno mai ottenuto alcun riconoscimento delle violenze subite né alcuna compensazione.
Sull’idea di rappresentazione della realtà presente riflette La empresa di André Siegers, documentario la cui cifra «dialoga» col suo soggetto. Partiti con l’idea di un film su un veterano in Florida, il regista tedesco e la sua produzione, fallito il progetto si dirigono in Messico, su indicazione di un giardiniere conosciuto lì, che li manda in una cittadina dove, dice, troveranno ciò di cui hanno bisogno per un film sui migranti che attraversano il deserto per entrare negli Stati Uniti. Ma che la rende speciale rispetto alle altre sul confine?

LA MIGRAZIONE gli abitanti – molti loro stessi «clandestini» in America – l’hanno trasformata in business; produzioni tv, cinematografiche, documentari trovano impacchettata la caminata nocturna con i migranti, i narcos, i pericoli e gli incidenti, le pattuglie americane, tutto ciò che hanno vissuto e che viene messo in scena. Basta pagare.
Cinismo? O declinazione del capitalismo? I responsabili del centro anche resort spiegano che entrare «nelle loro case» ha un prezzo. Di fatto il villaggio non lo vedremo mai, ma nel suo tentativo di cogliere la «realtà» La empresa si presenta – pure se forse più teoricamente che nel risultato – come una acuta riflessione sul gesto del filmare il mondo, sulla sua verità e sulla necessaria finzione che la preserva.