Non so quanto abbia influito sulla sua larga vittoria, ma l’impegno di Macron sul clima e sulla green economy è stato centrale nei suoi discorsi e nella campagna delle legislative. Il tweet forse più importante e definitivo a pochi giorni dal voto diceva: «I nostri obiettivi: la stabilità democratica e una crescita ambientalmente sostenibile. Questo presuppone di poter contare sulla società civile». Vedremo in che misura alle parole seguiranno i fatti.

È impietoso il confronto con le varie iniziative politiche italiane. Eppure la scelta di Trump ha paradossalmente innescato reazioni positive: l’Europa sembra ritrovare, a partire dal clima, un’anima politica, una missione. E un asse importante con la Cina. Negli stessi Stati uniti si allarga il fronte del dissenso. Numerose città e stati, anche a guida repubblicana, si sono pronunciati per il rispetto degli accordi di Parigi; tra questi la California, che è quello economicamente più forte e che si è dato gli stessi obiettivi dell’Unione europea sulle emissioni inquinanti.

Ma i mutamenti climatici colpiscono soprattutto i paesi più poveri e fragili, provocando tensioni e flussi migratori. Pensiamo alla regione del Lago Ciad, che confina con  Camerun, Ciad, Niger e Nigeria. Negli ultimi trenta anni la superficie del lago si è ridotta dai 25 mila  kmq (più della Lombardia) del 1963 a meno di 2000 (meno della Val d’Aosta). Proprio nelle zone a ridosso del lago  è più forte Boko Haram.  Ed è qui che il mancato contributo degli Usa al Green Fund, il fondo di 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare le misure di adattamento e mitigazione nei paesi in via di sviluppo, potrebbe provocare più problemi.

Le politiche ambientali rappresentano, però, anche una grande opportunità per il futuro.
Una  sfida economica, tecnologica, sociale, geopolitica che riguarda una nuova economia, basata su fonti rinnovabili, risparmio energetico, economia circolare, mobilità sostenibile, innovazione e qualità.

C’è ancora qualcuno, in Italia, che pensa che le ragioni dell’ambiente siano in contrasto con quelle dello sviluppo e dell’occupazione? È vero esattamente il contrario. Sono oltre 385 mila le aziende italiane, ossia il 26,5 per cento del totale,  che dal 2010 hanno investito in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni di CO2 (dati Symbola-Unioncamere). Scelte che hanno generato crescita delle esportazioni, dei fatturati e dell’occupazione. Nel 2016 sono legate all’ambiente  250 mila assunzioni, fra green jobs in senso stretto e figure ibride con competenze green: pari al 44,5 per cento della domanda di lavoro non occasionale. Quota che sale fino al 66per cento nel settore ricerca e sviluppo. Per non parlare delle enormi potenzialità di un’edilizia che punta su risparmio energetico, sicurezza antisismica, riqualificazione del patrimonio esistente.

Sono numeri che dovrebbero mettere tutti d’accordo, a partire dalle forze democratiche: le ragioni dello sviluppo sostenibile e quelle del lavoro; la difesa dell’ambiente con la crescita economica. Un primo banco di prova è la scrittura della nuova Strategia Energetica Nazionale,  su cui è aperto un confronto in Parlamento e nel Paese. Occorre partire da obiettivi ambiziosi e praticabili, come  favorire l’autoproduzione elettrica da fonti rinnovabili per cittadini, comunità e imprese; abbandonare nei prossimi anni il carbone per la produzione di energia elettrica;   raggiungere entro il 2050 il cento per cento  di fonti rinnovabili almeno nel settore elettrico.

Un’Italia che fa l’Italia ha nel suo Dna i cromosomi per fare questo. Incrociando innovazione tecnologica e cultura, coesione sociale e bellezza. Ed è questa anche la frontiera migliore per difendere i diritti.