Un uomo in cui vibra al presente, nel dinamismo teso, fratto del movimento, il corpo collettivo di una moltitudine di soldati sfruttati, mai citati, morti lontani dalle loro tradizioni, terre, paesi, famiglie. Un racconto che contrae e unisce in una visione metamorfica il destino dei soldati Sepoy portati a combattere in Europa dall’India durante la Prima Guerra Mondiale secondo l’ottica coloniale del mondo, agli strappi violenti che ogni conflitto porta con sé. Akram Khan, artista anglo-bengalese, classe 1974, coreografo e danzatore tra i più grandi della sua generazione, ha dedicato a questo tema corrosivo Xenos (Straniero), spettacolo di bruciante magnetismo presentato in prima nazionale l’altro ieri al Teatro Argentina dal festival RomaEuropa (alle Fonderie Limone di Moncalieri il 25 e 26 per Torinodanza Festival).

KHAN HA ANNUNCIATO che sarà il suo ultimo assolo da autore/interprete: speriamo ci ripensi. L’assolo vive dentro la trasformazione della scena che scolora dagli aranci e dai gialli illuminati dell’inizio alla visione brunita, terrosa, ferita dai sassi, della fine. Una collina che degrada uniforme dalla mezza altezza della scena verso il pavimento, rallegrata da oggetti e corde colorate e rischiarata da una fila di lucette tra un’altalena e alcune sedie. Un antico mondo indiano festoso e pacifico reso sonoro dalle percussioni e dal konnakol dei due musicisti seduti al centro. Uno spazio raccolto nel quale irrompe, magnetico, il movimento di Akram che infuoca, trascendente, dentro l’antica tradizione kathak. Un mondo di ritmi e moti e canti la cui bellezza tragicamente sparisce: gli oggetti, le sedie, l’altalena, le luci, sono trascinate via, improvvisamente, da corde che si mangiano tutto, lassù sulla collina, risucchiando anche l’uomo e la sua storia.

LA COLLINA si scurisce, il corpo si attorciglia, impaurito, sballottato. La danza di Akram, soldato Sepoy, si batte, nonostante sia una partita persa con il mondo e la sua stupidità, la musica di Vincenzo Lamagna, piena di voci, echi e sofferenza fino alla citazione del Lacrimosa dal Requiem di Mozart, è un canto di dolore, che si fa tangibile nel rapporto tra il vortice della danza e i musicisti in ombra, immobili, dietro la cima della collina. Khan si imbriglia in una grossa corda che lo incatena, trasformando il mito tragico di Prometeo nell’emblema del destino feroce del soldato. E così in una scena che è allegoria di ogni campo di battaglia, si diventa partecipi di una storia che è anche quella dei nostri giorni, incarnata in una danza mossa un vigore centripeto, rotto da fughe: è la solitudine dei vinti di ogni tempo, vessati da tonfi, spari, luci che lo offrono, senza pietas, alla morte.