Firmatario di una bibliografia ormai longeva il cui esordio risale al 1980, fitta di almeno una dozzina di titoli (dall’inaugurale Ultimo assedio a Reificar che esce da Manni nel 2017), Tommaso Di Francesco mostra una fisionomia particolare all’interno di una generazione e di una collocazione topografica segnata dall’urto frontale con la Neoavanguardia, dunque dalla la messa in mora della tradizione poetica e infine della poesia tout court.

IL FATTO che Di Francesco abbia esordito ventenne su Nuovi Argomenti e con l’avallo personale di Pier Paolo Pasolini già indica una postura che non verrà mai meno e anzi nel tempo saprà strutturarsi sia come una personale poetica sia come una divisa etica.
Questo significa, ab origine, non tanto una valorizzazione della poesia in sé, novecentista e/o avanguardista, quanto un suo ripensamento problematico che concerne, dopo tutto, anche il maggiore coetaneo e il più sospettabile di lirismo, sia pure calcinato e maledetto, Dario Bellezza, così come riguarda lo stesso Pasolini che in quel lasso di tempo prepara le poesie/non-poesie di Trasumanar e organizzar, il suo libro più sottovalutato e che invece fu un punto di riferimento per la generazione di autori allora giovanissimi e ancora clandestini: ad esempio, l’esordio di Di Francesco, se non concomitante, è adiacente alla vicenda poi ricostruita in un libro divenuto canonico, Il pubblico della poesia (1975) a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli.

MA A QUELLA ALTEZZA cronologica è già chiara la fisionomia del poeta romano per cui non vale la «parola» illustre e sovraccarica dell’eredità ermetica né vale, altrettanto, il semplice cut up con cui gli avanguardisti presumono di liquidare la parola poetica in sé trattando l’io lirico come una sovrastruttura e invenzione borghese: viceversa Di Francesco è poeta della metrica e della sintassi, il che vuol dire che lavora sulla percezione e sulla relativa immediata sua dislocazione, nel qual caso un sistematico straniamento dei dati percettivi.
Questi ultimi si sommano fino a stratificarsi per essere di colpo deviati da un taglio metrico, da una inversione sintattica, da un cambio di marcia (di ritmo) imprevisto. Come in un distico esemplare, «Siamo resi immagine e racconto dato/ la morte passa per somma delle verità», che ne richiama un altro in forma di clausola, «Allora col sonno/ difendi il poco amore che tutto riconnette».

IN POCHI VERSI dal disegno sghembo, che tuttavia si riassume in esatti endecasillabi, qui viene dato in sintesi il destino di qualcuno il cui passato scorre alle spalle quasi fosse un trasparente cinematografico, in una sequenza di sottrazioni e di persone scomparse, nel dolore e nell’ansia che solo il sonno, un difficile sonno, può schermare facendo spazio al poco amore residuo (e si tratta di un verso fulminante, stupendo) che tutto riconnette.
In queste ultime scarne linee viene delineato il destino di Luigi Pintor, seconda sezione di I rabdomanti. Quattro poemetti, quattro poesie colloquiali e una favola (manifestolibri, «INbreve», pp. 82, euro 8.00), un libro dedicato ai fondatori del giornale, il manifesto ovviamente, di cui il poeta è firma storica degli esteri e attuale condirettore.
C’è intanto un doppio precedente rappresentato da Bistro (’98) e Il trasloco. Epigrammi sulla redazione de il manifesto (2008) dove emerge ufficialmente il tratto acuminato che era già immaginabile, comunque, nella antica curatela di Veleno. Antologia della poesia satirica contemporanea italiana, un libretto bellissimo, prezioso, che esce da Savelli nel 1980, ma l’epigrammista Di Francesco suole ricomporre proprio quello che il poeta Di Francesco scompone nelle sue anamorfosi sintattiche e metriche, come nel caso de I rabdomanti dove spazio e tempo di vicende umane e politiche si saldano per cortocircuiti e per frammenti accostati con rapidità rovinosa. Perché quanto in principio può ordinarsi come una consueta elegia, un richiamo dal passato di figure care e celebrate, ecco che al presente si arroventa, apre varchi nel ricordo, vie di fuga o di scampo impreviste.

I SINGOLI TESTI hanno per lo più la forma di poemetti o di suites, i personaggi evocati oltre a Pintor sono Aldo Natoli (che in molti rammentiamo uomo laconico, austero, attento biografo di Gramsci), Lucio Magri e Valentino Parlato (entrambi vicinissimi nel ricordo di tutti), Eliseo Milani, un politico che aveva l’autorevolezza dell’ex operaio di linea, Lidia Menapace sul serio nomen omen, e ovviamente Rossana Rossanda in dittico con il suo compagno, l’altrettanto indimenticabile K. S. Karol con l’eterno suo trench cosmopolita (lui l’autore della straordinaria autobiografia Solik. Peripezie di un giovane polacco nella Russia in guerra – Einaudi 2008 – che proprio Rossanda tradusse in limpido italiano). «Come fosse la stessa innaturale prova/ imposta alla parola, impropria al suo/ registro/ per cambiarne potenza e onda/ urlata,/ cantava»: tale è il rovello iscritto nella scrittura di Rossanda, il cui oroscopo, ancora una volta, si scopre opposto e complementare a quello di Pintor, perché tanto Pintor incide la pagina, vibrante perché icastica, quanto Rossanda moltiplica i referenti e torna di continuo sui suoi passi, mai per incertezza ma per attenzione massima, come nel paradosso dello specchio, alle dinamiche della alterità.

A ROSSANDA, va aggiunto, è pure dedicata la fiaba che conclude il volume, Mefis è tornata, la gatta nera di Rossana che nel trasloco fra Parigi e Roma scopre la diversità del mondo inclusa l’avventura con un gatto randagio: si tratta di una fiaba allegorica sul rapporto tra la necessità e la libertà (si potrebbe anche definirla la dialettica del comunismo, senza aggiungere altro) dove nelle sembianze dell’ospite, sempre in viaggio, sempre intellettualmente charmante e sempre bella di una bellezza inscalfibile, si riconosce al suo fianco la presenza propizia di Luciana Castellina.
Già nel titolo complessivo, I rabdomanti così esplicitamente metaforico, si iscrive il gesto di un poeta che teme il decorso troppo rettilineo e oleografico della memoria. Di Francesco mira invece alla costruzione di uno sguardo prospettico e alla decifrazione di segni per l’appunto allegorici, i quali eccedano la freddezza premeditata dei costrutti guadagnando un senso dalla vibrazione dei segni stessi, perché al tempo dell’esordio anche Tommaso Di Francesco deve avere fatto sua (Pasolini la ricordava nella famosa prefazione Al lettore nuovo delle Poesie, 1970) l’immagine di Roman Jakobson che, a sua volta, cita un verso di Paul Valéry secondo cui la poesia altro non sarebbe se non «l’esitazione prolungata tra il suono e il senso».

QUI IL POETA tende a opacizzare quella vibrazione o meglio a portarla sul passo metrico e sulla cadenza prosodica per poi liberarla in immagini di nuda chiarezza del tipo, a proposito di Milani, «cercavi ancora il gemello diverso,/ non il doppio ma l’uguale» oppure, e stavolta riguardo a Lucio Magri, «eravamo alla ricerca dell’acqua potabile». Ciò vuol dire (e vale anche e innanzitutto per la poesia) la ricerca del necessario, dell’essenziale.