Telefonini e circenses, per parafrasare il noto volume di Paul Veyne. Insieme alla televisione generalista, con i suoi programmi di perenne intrattenimento, il cellulare accompagna morbosamente la vita quotidiana. Anzi, è il moderno punto di congiunzione con la rete, essendo le nuove generazioni degli apparecchi un po’ telefono, un po’ computer. Siamo dentro le previsioni di McLuhan, che ben spiegava come i media fossero un pezzo del nostro corpo.

Non solo. Ogni mezzo cannibalizza – diceva il profeta di Toronto – un organo, un senso. Dagli occhi alle orecchie al sistema nervoso. Ora, però, in gioco è il cervello. Purtroppo, il dato assume una valenza brutale e concreta, al di là degli aspetti simbolici.

Nei giorni scorsi il giudice del lavoro di Ivrea ha condannato l’Inail a sostenere economicamente un operatore di Telecom colpito da un tumore al nervo acustico. A seguire un omologo provvedimento preso a Firenze.

Già nel 2012 la Cassazione diede ragione alla Corte d’Appello di Brescia su di una vicenda simile. Del resto, la storia è antica.

Nel febbraio del 2003 fu stilato un draft dall’Organizzazione mondiale della sanità, chiarissimo al riguardo: i cellulari andavano oltre la soglia termica di 2 Watt per Kg considerata la linea di rispetto da non superare. Così si era espressa la raccomandazione 519/UE del 1999, seguita alla rigorosa soglia sancita  nel 1997 dalla Federal communication commission (Fcc) negli Stati Uniti. Ma indicazioni e inviti alla precauzione sono rimasti nei cassetti delle autorità vigilanti, tanto che sola è in campo la magistratura a tutelare i cittadini.

Peggio. Dopo la condanna di Ivrea si sono susseguite articolesse minimizzanti, tese quasi a etichettare come fondamentalismo ascientifico il desiderio di utilizzare «normalmente» i criteri della cautela e della prevenzione. Peraltro, furono ispirati a simile atteggiamento il decreto 381 del 1998 sull’inquinamento elettromagnetico e la legge quadro 36 del 2001, il cui articolo 12 dedicato proprio alla delicatissima questione in causa non è stato mai attuato.

Peggio. Dopo gli allentamenti e i buchi dello «Sblocca Italia» dell’epoca di Renzi e dei provvedimenti di liberalizzazione della stagione di Monti, infine il decreto del 2016 del ministro Galletti ha dato un altro colpo ferale.

Tuttavia, se la citata sentenza della Cassazione del 2012 sanciva giuridicamente  il pericolo di un utilizzo  prolungato del telefono cellulare, la comunità scientifica ha da tempo sottolineato che i danni sono largamente presumibili, con tanto di casistiche negative.

Assurdo e inquietante, dunque, è il clima di opinione manipolatorio e minimizzante attorno ad un argomento considerato tabù, dove si muove una quota amplissima del nuovo capitalismo digitale. Guai a toccare un capitolo sul quale ormai è calato un silenzio pesante.

Non si deve sapere, come fu molti anni fa con l’amianto: per fare un esempio ingombrante, ma purtroppo realistico.

Dobbiamo aspettare cinque-dieci anni, quando le statistiche tumorali diventeranno tragicamente diffuse, per avere una sollevazione etica e civile? L’omertà è immorale. Nessuna tentazione luddista, ovviamente. Un modello di sviluppo puramente intensivo e viziato dal determinismo tecnologico fa danni anche a un’oculata politica dell’innovazione. Non per caso l’Italia è in coda sulla banda larga e ultra larga, mentre eccelle solo nel mobile.

Gli stessi sofisticatissimi algoritmi potrebbero offrire soluzioni avanzate. La tecnologia, quando si cimenta con le esigenze della comunità, risolve ciò che gli spiriti animali del capitalismo rimuovono per convenienza.

Lo stesso Istituto per l’autodisciplina della pubblicità dovrebbe imporre la segnalazione, nei numerosissimi spot dei diversi gestori, del rischio. Incombente. Come sui pacchetti di sigarette.