Si comincia salendo. Un poco per volta si fa lontana la musica che suona nel parco della Centrale di Fies. Si cammina in fila nel sottobosco. In silenzio. Si sente solo il rumore dei propri passi. Poi il sentiero diventa pietroso, si comincia a vedere la frana morenica venuta giù dalla montagna in epoche preistoriche. A tratti di lato dal sentiero compaiono figure nere, esseri senza volto che abitano quei luoghi, si suppone. Corrono per un po’ e poi scompaiono, per apparire di nuovo più numerosi. Attenti a noi ma non minacciosi. Arrivati a uno spiazzo fra i macigni franati li vedremo impegnati in azioni non ben comprensibili, sempre in lontananza, mentre si ascoltano parole altrettanto misteriose che non si sa bene da dove provengano.

Comincia con la performance di Andreco, nome d’arte di un ingegnere – artista sensibile ai temi ambientali, la trentaseiesima edizione del festival Drodesera che per la prima volta si spinge così fuori dalle fiabesche mura della Centrale. Quest’anno si è dato come titolo World breakers, pensando forse agli artisti come distruttori di mondi che dai medesimi vengono continuamente ricostruiti. Non esiste un luogo immutato e immutabile, ci dicono le note programmatiche. Però esiste un progetto, lo si percepisce anche nell’ostinazione con cui ritornano alcuni nomi. Come Philippe Quesne, francese di Nanterre, presenza assidua nei festival di questa stagione. La mélancolie des dragons è uno spettacolo di qualche anno fa e colma un buco nella conoscenza di questo artista.

Un’uniforme coltre nevosa copre il palcoscenico, circondato da una fila di spogli alberelli altrettanto imbiancati. Al centro è ferma una vecchia automobile con un alto rimorchio. Una Citroen AX del 1990. Deve essere lì già da un po’ a giudicare dalla neve che ha cominciato a coprirla ma non sembrano darsene cura i quattro giovanottoni che siedono all’interno. Bevono birre in lattina, ascoltano la musica. Hanno tutti i capelli lunghissimi. Non si stupiscono nemmeno quando vedono arrivare una donna in bicicletta, non proprio una ragazza ma con la maglietta dei Metallica. Altri tre saltano fuori dal rimorchio per salutarla. Anche questi hanno i capelli lunghissimi. Lei si tuffa dentro il cofano per vedere cosa non va, tira fuori un po’ di tutto – è una gag naturalmente. Serve un nuovo impianto di accensione ma ci vorranno sette giorni, si resta lì. Si apre allora una fiancata del rimorchio rivelando una camera interna che può diventare un palchetto ma anche la loro cucina o la biblioteca ricca di opere sulla melancolia, da Dürer a Goya.

Questi anziani giovanotti sono in effetti una specie di «scarrozzanti» testoriani in versione metal. Portano in giro con convinzione le loro povere attrazioni. Chissà se hanno mai sentito parlare di Ejzenštejn, però citano Artaud. Lei comunque, la donna della bicicletta, sembra apprezzare. E loro sciorinano tutto il repertorio. Sette parrucche appese che ballano appese al vento prodotto da un grosso ventilatore. Gli spruzzi di una fontanella. Una macchina che produce una pioggia di bolle di sapone. Soprattutto certi lunghi sacchi gonfi d’aria che portano in parata o alzano come totem della loro povera arte. Sembra fatto per strappare un sorriso ma l’effetto è struggente, come una puntura dolorosa che un poco per volta sparge il suo veleno.

Non c’è tanto da ridere nemmeno nel racconto che Mohamed El Khatib, francese di origini marocchine, ha dedicato alla morte della madre. Una bella fine, A beautiful ending dice il titolo con un po’ di umor nero (in inglese, pazienza). Non è proprio così. Fra pagine di diario, registrazioni di conversazioni, poche immagini della cerimonia del lutto, quando tutto si è già concluso, e l’ostensione dei mezzi di riproduzione tecnica, si allineano i frammenti di un discorso familiare. Dovrebbe restituirci l’immagine di un’anziana donna analfabeta che ha conosciuto un solo Libro, di cui sa recitare a memoria i versetti. Ma l’impianto drammaturgico è davvero troppo esile. Siamo assai lontani dalla carica emozionale del lavoro allestito da Sophie Calle alla Biennale veneziana, una decina d’anni fa, nell’affrontare un analogo momento della vita.

Assai più forte è l’impatto emotivo del lavoro presentato da Rabih Mroué, poliedrico artista libanese residente a Berlino e marito dell’attrice e drammaturga Lina Saneh. In realtà il protagonista di Riding in a cloud è il fratello Yasser che seduto a un tavolino davanti a un pila di cd racconta la sua storia. O meglio, lascia che emerga da sé, dai materiali che va mostrando. Beirut 1987. Un cecchino l’ha colpito alla testa mentre correva per strada dopo aver saputo dell’uccisione del nonno, militante comunista, da parte delle milizie musulmane di Amal. Si è salvato, dopo diversi interventi chirurgici, ma la parte destra del suo corpo è paralizzata. Ce ne accorgiamo quando si alza per avvicinarsi al grande schermo da proiezione che fa da fondale. Proprio nei brevi video che realizza ha trovato la sua forma di espressione, capace di superare la disabilità che gli impediva di riconoscere il contenuto di un’immagine stampata. Ma il cardine del lavoro sta nella messa in discussione proprio di quell’io narrante, nel rapporto ambiguo fra la persona reale e quella che si fa personaggio, accomunate dalla sua presenza in scena. Questa non è una performance, dirà. Ma come fare? Quel nodo non si scioglie, e forse è bene che sia così. Che qualche domanda resti aperta.

Dopo tanta infelicità è consolante immergersi sia pure per poco tempo nella spa allestita da Mara Cassiani in Ed3n Temple. Fra vapori e profumi e musiche d’ambiente due performer si muovono con centellinata lentezza in una sorta di yoga molto fisico (l’altra è Annamaria Ajmone che abbiamo visto pochi giorni fa a Santarcangelo ballare il bolero di Cristina Rizzo). Dovremmo sentirci estranei, inadeguati a quel luogo che ci tiene ai margini…